Winter Sleep, Nuri Bilge Ceylan incanta tra Cechov e Bergman
Winter Sleep di Nuri Bilge Ceylan, meritata Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, è un’esperienza cinematografica più unica che rara.
Non tanto e non solo per la durata fuori dal comune (3 ore e un quarto), ma per l’ipnosi che queste tre ore suscitano in noi tramite un ininterrotto fiume di parole e dialoghi fittissimi tra i protagonisti. Winter Sleep è una sinfonia di parole e silenzi assordanti, attenta al più piccolo dettaglio che emerge in stoccate verbali che pungono dritte la nostra psicologia.
Sullo sfondo di una Cappadocia meravigliosa e desolante, innevata e nebulosa, affiora un quadro umano complesso, dove nessuno è tutto buono o tutto cattivo, ma uomo, semplicemente uomo, con tutte le contraddizioni che questo significa.
Presentato in occasione della prima edizione di “Cannes a Firenze”, Winter Sleep è un film che scava nell’animo dei suoi personaggi, e di sponda, con decisione, anche nel nostro. Seguiamo i loro densi dialoghi al lume di candela e al caldo di un focolare come se quei loro discorsi, pieni e vuotissimi allo stesso tempo, nascondessero qualcosa di noi. Parlano, parlano continuamente, ma in realtà, pur non sapendolo, filosofeggiano sulla vita, l’arte, la religione, e noi restiamo misteriosamente vigili a non perdere neppure un passaggio, in attesa di un punto di deflagrazione che colpisca irrimediabilmente loro e noi. Ma il contatto, forse, non arriva mai.
Un film sulla noia, la solitudine, il quiete vivere ottenuto abitando ciascuno la propria miserevole vita, la quale però, un po’ senza volerlo, si alimenta di un astio e un’insoddisfazione che alla fine trabocca. Le loro parole, pure, quotidiane, quasi ingenue si sovrastano, becchettano, sommano all’infinito e noi ci sentiamo come sul lettino di una seduta psicanalitica. Un’opera implicitamente freudiana, che un po’ come nei film di Ingmar Bergman (si pensi ad esempio a Fanny e Alexander) non parla di noi, ma implicitamente sì. Ceylan ci lascia tranquilli, ma in realtà, proprio come all’autovettura di Aydin, rompe il vetro della nostra privacy più nascosta, più spirituale.
Come in Cechov, Winter Sleep è un subdolo dramma sul tragico quotidiano, sulle minuscole pene di uomini e donne che sembrano addormentati, ma in realtà sono sonnambuli pronti a (non) reagire all’ineluttabile corso degli eventi. Un alveare di tematiche, un formicolio di riflessioni, tutte apparentemente accennate e casuali, ma a ben vedere irreversibilmente già compiute e feroci.
Idealista sullo sfondo, ma assai realista in primo piano, catapultandoci in un trip etico ed estetico, Winter Sleep è un film che ci scuote dal sonno invernale, che toglie la neve e la polvere dalle congiunture delle nostre relazione con gli altri, che non ci fa uscire di sala rinfrancati né migliori, ma sicuramente più coscienziosi.
Non c’è che dire, 3 ore e passa mettono alla prova ma, a mio parere, solo a pensarci appena prima di entrare in sala. Scorrono, infatti, lisce come l’olio tra gli splendidi paesaggi invernali della Cappadocia. Notevoli sono i dialoghi, lunghi, difficili perché raccontano di situazioni personali ed emotive difficili, ma che rapiscono l’attenzione poiché estremamente reali ed umani. Conflitti fraterni e coniugali, dilemmi su questioni sociali come l’educazione nelle lande sperdute della Turchia, drammi familiari di padri ex carcerati che cercano di dare una speranza ai propri figli. Esperienza molto interessante e molto ben equilibrata che non sfocia nello stallo e nella noia, cosa che la durata e lo sfondo innevato potrebbero far presagire.
Con questo film Ceylan si consacra senza dubbio come uno dei più grandi registi degli ultimi anni.