Uno Zio Vanja: un terremoto di rabbia (e poco altro) per Marchioni e Montanari
Uno Zio Vanja. Il titolo parla chiaro. Quello diretto e interpretato da Vinicio Marchioni è uno dei tanti Zio Vanja che si possono mettere in scena, sviscerare e rielaborare dal testo che nel lontanissimo ottobre 1899 Anton Cechov fece rappresentare al Teatro d’arte di Mosca. Marchioni lo attualizza, e lo sposta dalla Russia di fine Ottocento all’Italia di oggi, l’Italia scossa e disperata, in ginocchio e immobile sotto ai colpi alti di chi sta al sole senza muovere un dito e i colpi bassi di un terremoto che, ora a l’Aquila ora ad Amatrice ora nelle Marche ci toglie la terra da sotto i piedi e i tetti da sopra le teste. Quello che resta, e pure quello che accade, è il nulla, il vuoto. Un’Italia ferma, in perdita, in perenne crisi, bloccata come un pompiere nel fango ghiacciato. Ma l’unione di questi due versanti, Cechov e i terremoti dell’Italia di oggi, non reggono alla prova della scena, le crepe drammaturgiche si fanno sempre più evidenti, soprattutto in alcune battute pronunciate dal dottore interpretato da Francesco Montanari. La pièce si accartoccia su se stessa e pian piano si smonta, nonostante le nobili intenzioni iniziali.
Non una casa, ma un teatro. Marchioni sostituisce la classica ambientazione cechoviana con un luogo della cultura, una cultura che cade a pezzi, bistrattata, dimenticata, in un Paese in cui, come disse qualcuno, con la cultura non ci si mangia. I resti di un teatro nella “zona rossa”, pezzi di cuore da abbandonare perché poco sicuri, ma che alla fine rimangono abitati: delle impalcature che puntellano muri instabili, una parete crollata che si apre su un ciliegio che sfiorisce e insecchisce come i personaggi e i loro desideri di vita. C’è rimasta un’enorme e bella tenda ancora ben drappeggiata, simbolo dei tempi in cui la vita solcava quegli ambienti, oltre a dei costumi di scena che nessuno mette più. Luoghi-non-luoghi, che non producono più, come nel testo originale accadeva al campo di grano. Ecco, Uno Zio Vanja soffre degli stessi mali: non produce grosse emozioni nello spettatore, i nessi tra i personaggi paiono slegati ed episodici, più di un monologo (s)cade nel didascalico o nel cattedratico (sottilissimo è il confine), confinando la realtà espressa dalle parole solo e soltanto alla nostra povera Italietta. Un “provincialismo” dell’adattamento a tratti soffocante, privo di speranze d’espansione oltre i teatri nostrani, proprio come privi di speranza sono quasi tutti i personaggi, che si sorreggono vanamente e ipocritamente l’un l’altro, ma non per cattiveria d’animo, ma vacuità di quest’ultimo.
Uno Zio Vanja è un castello di rabbia e poco più, urlata, sospirata, al limite del melò isterico. Cechov non era questo. La “magica” sospensione delle cose del drammaturgo russo, spesso confusa o mischiata alla proverbiale “noia”, cede il posto ad un’insoddisfazione che trova momentaneo sfogo in tanto rumore che non produce nulla. Ed è un peccato che le sorti di Uno Zio Vanja siano le stesse. Nonostante la buona e misurata regia di Marchioni e la sentita (ma non sempre verosimile) performance degli interpreti. Ma qui si concretizza il rovescio della medaglia, ovvero accade quell’incantesimo che fa sì che un buon finale, in questo caso il bellissimo monologo di Sonia, interpretato con un pathos e una passione che commuovono da Nina Torresi, vadano a riabilitare quasi l’intero dramma, strappando applausi che, inevitabilmente, si estendono dal singolo al tutto. Cortocircuiti del teatro, e non solo. E questo, forse, questo Zio Vanja, disilluso ma non stolto, lo sapeva sin dall’inizio, se non addirittura previsto.
[visto al Teatro della Pergola di Firenze]