Una sconfinata giovinezza: tra paura e memoria, una perla da riscoprire
Una sconfinata giovinezza di Pupi Avati è un film che fa paura, che spaventa. Per il tema trattato e per lo stile registico usato. Ed è proprio a causa del tema trattato, l’Alzheimer, che quest’opera si è dimostrata il maggior insuccesso della più che quarantennale carriera di uno dei più grandi maestri del cinema italiano. Il film infatti incassò (quando uscì nei cinema a fine 2010) solo 1.009.000 euro, poco meno del trascurabile Il nascondiglio del 2007. Perché? Il pubblico in genere vuole andare in sala per sentirsi coccolato e confortato, e non per confrontarsi faccia a faccia con una malattia che fa paura al solo pensiero. E così il film è stato evitato come la peste nera. Chissà – e lo dico tra il serio e il faceto – forse anche il Festival di Venezia rifiutò per questo stesso motivo il film di Avati, preferendogli La pecora nera di Ascanio Celestini.
Una sconfinata giovinezza è invece un grande film, che, in contrapposizione al germe degenerativo della malattia mentale portata sul grande schermo, rimane forte e nitido nella nostra mente, nella nostra memoria. E’ un colpo allo stomaco, ma anche un colpo di fulmine. Un’opera che si fa amare e ringraziare, che coinvolge e avvinghia, che fa sospirare profondamente e tiene masochisticamente crucciati.
In merito allo stile registico, Avati salta senza grossi preavvisi dal tempo presente a quello passato, dal colore di tutti i giorni alla cromia seppia di una foto ingiallita e invecchiata. Distese nebbiose, secchi e ramificati alberi secolari e giochi infantili dal dubbio potere erotico si amalgamano a personaggi inquietanti ben giustapposti tra loro: l’amichetto con i problemi di pronuncia, una zia imbolsita e materna, un cane pacioccone ma sibillino, ecc. Suscitano inoltre straniamento e domande interiori quelle riprese “ad altezza ginocchia” nelle sequenze durante il tempo che fu.
La sceneggiatura è forte, non perde colpi, sprigiona emozione e sentimento senza sosta, pur non incappando nel melenso o nel melodrammatico, dove invece le belle musiche di Riz Ortolani rischiano di condurci (alla deriva). I dialoghi sono magici, pregni d’amore e vita, quotidianità e verismo.
In merito agli attori, Fabrizio Bentivoglio è mastodontico, perfetto, inimitabile, è la prova della vita. Al suo fianco la bella e brava Francesca Neri, ormai un’abituè dell’ultimo Avati.
Insomma, è giunto il momento di farsi coraggio, di recuperare un’opera che, qualora non ce ne fossimo ancora accorti, ci fa sperimentare la sconfinata maestria di Pupi Avati.
Guarda l’intervista al regista Pupi Avati 👇👇👇