Tutto su mia madre: film rosso – recensione
Analisi di Tutto su mia madre di Pedro Almodovar.
Premessa: quella che segue non è una recensione, ma un’analisi di alcuni aspetti del film.
Tutto su mia madre (Pedro Almodovar, 1999) è un film di colore, anzi sul colore, vero collante di una storia complessa ed eccessiva. Un colore ridondante che nelle sue tonalità calde riecheggia le origini latine del regista.
Il colore si fa forma, portatore di senso, soggetto, sentimento. Sin dalla locandina, dove caratterizza con densità e vigore le labbra e la maglia di una schematica figura femminile, il rosso si presenta come “primo attore” indiscusso. Rosso sanguigno e passionale che penetra subito nei titoli di testa e nelle didascalie temporali. Rosso pulsante come il cuore di Esteban e peccaminoso e ribelle come i capelli delle protagoniste, come le loro bocche marcate dal rossetto e i loro abiti (un esempio su tutti è il cappotto rosso che ricorre più volte addosso a donne diverse). Rosso che incarna l’amore pulito di una madre per suo figlio e l’amore carnale che ogni sera Agrado e Lola regalano ai loro clienti.
Il rosso è il colore del trapianto che porta lo spettatore sul tema della sostituzione, la quale si declina nel trasferimento del nome Esteban quasi per via ereditaria e nel cambiamento del proprio genere sessuale.
Rosso come il sipario che, alzatosi, ci conduce nel mondo del teatro e della teatralità, presente fisicamente sia nelle molteplici sequenze che mostrano scene teatrali sia nell’esasperata recitazione della protagonista.
A questo colore si alternano, come in un quadro di Van Gogh, il giallo e il blu. Il giallo caratterizza gli interni, come a voler creare un senso di intimità ed amicizia. Il blu, il cui tono acceso ricorda il primo episodio della trilogia cromatica di Kieslowski, è il colore della scenografia teatrale e trasmette un senso di pace, come a voler sottolineare l’effetto catartico del palcoscenico. Abbiamo così tre colori primari con cui il regista/pittore dipinge il bene e il male, la gioia e il dolore, il sacro e il profano, e gli stessi istinti elementari dell’uomo.
L’opposizione di caldi e freddi porta la lettura del film su un continuo dualismo che si concretizza sotto varie forme: Barcellona-Madrid, persona-attore, cinema-teatro, evocazione di Eva contro Eva, ricorrenza del numero 2 nei passaggi temporali, riproposizione di sequenze con lievi differenze (ad es. quella sulla decisione del trapianto di organi nella fiction e nella cruda realtà, e quella dello spettacolo Un tram chiamato desiderio visto da Manuela primo col figlio e poi senza).
L’originalità dal fronte cromatico è poi ben rintracciabile in quello stilistico (è sufficiente considerare due magistrali soggettive: quella della matita che scrive il diario e quella dello sguardo di Esteban esanime a terra dopo l’incidente con la madre che prende in mano la sua testa/macchina da presa).
Il colore è quindi l’invasivo comun denominatore di un film eccentrico, alternativo, fuori dal coro, un film che mette in scena sul palco e sullo schermo una storia al femminile sulle sfumature emozionali della vita.