Too Much Johnson di Orson Welles: la recensione del film

Lo sapevate che l’esordio di Orson Welles non è Quarto potere (1941) bensì Too Much Johnson (1938)? Ecco la recensione del film.

Too Much Johnson

Trent’anni fa, il 10 ottobre 1985, moriva Orson Welles, uno dei più grandi registi cinematografici di sempre. Tutti ci ricordiamo come abbagliante film d’esordio Quarto Potere (1941). Ma secondo una recente scoperta ad aprire la carriera di Welles è stato un altro film, per lungo tempo ritenuto scomparso, tornato alla luce nel 2013 e visto da pochissimi: Too Much Johnson (1938).

1938. Orson Welles ha appena 23 anni, è già molto conosciuto nelle file del teatro americano e a breve avrebbe sconvolto tutti con la celebre trasmissione radiofonica de La guerra dei mondi (dal romanzo di fantascienza di H.G.Wells) ai microfoni della CBS. Ma prima di quello shock on air, il giovane Welles s’accinge a dirigere la messinscena della pièce teatrale Too Much Johnson di William Gillette al Mercury Theatre di New York. E decide d’accompagnarla con un film, una commedia, dallo stesso titolo.

Pur rimasto incompiuto a causa di grossi problemi finanziari (stessa sorte toccò anche alla pièce che non vide mai il battesimo del palcoscenico), Welles amava così tanto quel progetto cinematografico da custodirne gelosamente le bobine nella sua villa di Madrid. Nel 1970, però, a causa di un incendio, andarono tragicamente distrutte e Welles dichiarò di aver perso l’unica copia della pellicola. Ma la Storia, quasi quarant’anni dopo quelle fiamme, c’ha rivelato che quella bruciata nella capitale spagnola non era l’unica copia in circolazione…

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Sospeso tra il colpo di fortuna e il miracolo, è infatti il ritrovamento, assolutamente casuale, nel 2008, in un magazzino di Pordenone, di una “seconda” copia del film. Restaurato dalla Cineteca del Friuli e proiettato in prima mondiale il 9 ottobre 2013 alle Giornate del Cinema Muto di Pordenone, Too Much Johnson, mediometraggio muto (appena 66 minuti), in bianco e nero, è un vero e proprio gioiello che racchiude in sé, in potenza, tutto l’Orson Welles che da Quarto potere in poi avrebbe destabilizzato Hollywood e non solo.

Too Much Johnson filmMuto, dicevamo, ma datato 1938. Sono quindi passati una decina d’anni da quando il sonoro ha fatto irruzione nel cinema (ad aprire i microfoni fu nel 1927 Il cantante di Jazz di Alan Crosland). Negli Stati Uniti la transizione dal muto al sonoro non fu radicale né repentina e i silent movie si trascinarono per altri due anni, fino a Il bacio (The Kiss) di Jacques Feyder del 1929. Too Much Johnson, quindi, arriva fuori tempo massimo. Perché questa scelta? Welles voleva tornare al passato o era rimasto indietro rispetto al progresso del cinema? Assolutamente no. Welles realizza coscientemente un’opera che si muove controcorrente rispetto alla storia del cinema del tempo.
Il 1938, infatti, è sinonimo di pieno cinema classico americano. Chiarezza e trasparenza sono le due parole chiave di ogni film che si rispetti. Lo spettatore è al centro del cinema classico americano e non deve mai smarrirsi guardando un film. Continuità narrativa, ordine cronologico degli eventi, leggibilità del contenuto narrativo, gerarchizzazione dei piani, drammatizzazione dei personaggi tra “buoni” e “cattivi”. Tutto deve essere lineare e comprensibile. Ma con Too Much Johnson, infrangendo letteralmente ogni illusione di realtà, Orson Welles si candida a “rottamatore” e primo ribelle del cinema classico americano. Per capirne il perché, passiamo all’analisi del film.

Interpretato dal futuro attore feticcio di Welles, Joseph Cotten, Too Much Johnson racconta di un playboy, Johnson, che si ritrova continuamente inseguito da altri sé, da altre persone che assumono la sua identità. Per sfuggire al marito di una delle sue amanti, scappa a Cuba e s’impossessa dell’identità di un proprietario terriero locale.
Un gioco d’identità, dunque. Identità plurime, sosia, doppioni. Inseguitori ed inseguiti si rincorrono, si scambiano di posto, girano in tondo senza sosta in una comedy che diverte a più riprese. Welles è cosciente degli insegnamenti dei grandi maestri del cinema comico americano: in Too Much Johnson, infatti, ricorrono le gag a base di slapstick dei noti keystone cops di Mack Sennet, la circense prestanza fisica di Charlie Chaplin nell’atleticità di Cotten, lo charme malinconico e il cappello alla Buster Keaton. Ma Welles guarda ancora più indietro: alle ambientazioni “da camera” della scuola di Brighton dei primissimi del Novecento (quando ancora il linguaggio del cinema era in fase embrionale) e ai padri del cinema, i fratelli Lumière, nelle scene di saluto alla nave in partenza.

Too Much Johnson filmWelles ha capito che il divertimento non nasce solo dalla velocità (come insegnava Sennet), ma anche dall’iterazione, dalla ripetizione, sia essa reale e apparente, dello stesso evento. È così che vediamo Joseph Cotten compiere più e più volte la stessa gag (ad esempio quella con la scala sul tetto) o passare più e più volte (con angolazioni diverse della mdp) per le medesime strade. Le azioni si moltiplicano, si scompongono e ricompongono, germinano le une sulle altre finché anche l’allenato spettatore di oggi, come (dis)perso e “braccato” in un vicolo cieco, finisce per arrendersi al joke di Welles. Il quale però non s’accontenta d’aver infranto l’imperativo classico e categorico dell’azione, della linearità, dello spazio e del tempo continui e contigui. Se il cinema classico vietava la profondità di campo (il primo piano è a fuoco come ciò che sta sullo sfondo) poiché distraeva lo spettatore moltiplicando i punti d’attenzione, Welles vi ricorre sistematicamente. È così che vediamo il volto del marito cornuto in primo piano e sullo sfondo il playboy che fugge sui tetti. La stessa profondità di campo dal valore narrativo che tre anni dopo avremmo rivisto in Quarto Potere, dove con lo stesso colpo d’occhio lo spettatore può scorgere sullo sfondo il piccolo Charles che gioca in giardino con la neve e in primo piano, in interni, sua madre a dialogo col banchiere Thatcher.

Concludendo, Too Much Johnson aveva ed ha ancora oggi tutto il sapore di una grande prova generale in cui Welles testava in lungo e in largo il mezzo cinematografico, ossia quel giocattolo che avrebbe tramutato in Arte. Volendo riassumere tutto in una frase, in Too Much Johnson c’era già Too Much Orson.

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