Titane di Julia Ducournau: il corpo (martoriato e difforme) del cinema
Recensione di Titane di Julia Ducournau.
– Sei malato?
– No, sono vecchio.
In questo scambio di battute tra Agathe Rousselle e Vincent Lindon c’è una delle chiavi di lettura che possiamo applicare a Titane, opera seconda della giovane Julia Ducournau (classe 1983), Palma d’Oro al Festival di Cannes 2021. Un film malato che vuole svecchiare il cinema. Ma è questa la via per togliere polvere, dare nuovo lustro e ringiovanire la settima arte?
Titane è un’opera che lascia sconcertati, basiti, anche senza parole. Di certo, però, non ci lascia indifferenti, suscita in noi emozioni contrastanti, ora positive e ora negative, ora viene da applaudire e ora da abbandonare la poltroncina. Titane è davvero qualcosa di mai visto prima, o comunque qualcosa di libero, anarchico, sfacciato come non vedevamo da molti anni al cinema.
Alexia, una ragazza con una placca di titanio nella testa, rimane incinta dopo aver fatto sesso (non si sa come, ma non importa!) con un’automobile corazzata e fiammeggiante, e mette al mondo un bimbo con la spina dorsale di ferro. È una serial killer, non per scelta ma per difesa, e uccide a sangue freddo conficcando un fermaglio da capelli dritto nell’orecchio dei malcapitati. Poi c’è Vincent, un pompiere che ha perso il figlio, non se ne fa una ragione, ed è disposto a tutto per averne un altro, “nuovo di zecca”. Si auto-illude quindi che Alexia sia un maschio. Questi sono solo alcuni dei dettagli di una trama che abbonda in eccessi, storture, assurdità. Ma in questa follia Titane è omogeneo, non conosce mezze misure, o bene bene o male male. È una creatura deforme e difforme ma non informe, duttile e malleabile come ferro fuso ma anche dura, indeformabile, “fedele a se stessa” come l’acciaio. È un film che, come un modernissimo Frankenstein, mette al centro della storia e del cinema il corpo, sia esso di una donna, di un uomo o di una macchina. Titane è corporeità maltrattata, martoriata, capace di generare l’ingenerabile, ciò che non solo è improbabile ma addirittura impossibile (Alexia perde olio nero dalla vagina, dalle mammelle e dalla bocca). Il sangue è mescolato e contaminato dallo sporco che rende funzionante un’automobile, la pelle è strappata e graffiata come un metallo nell’altoforno di una fabbrica metallurgica.
Julia Ducournau ha talento e coraggio da vendere, anche a costo di risultare molto disturbante in vari passaggi e carente nei nessi tra causa ed effetto in varie svolte della trama. Un modus filmandi strafottente, sfrontato, di una libertà espressiva che lascia attoniti, perplessi, ma anche ammirati. E non è da meno l’evidente richiamo (ben sopportato da una colonna sonora ora da horror/thriller e ora aulica), che sa sia di riflessione sia di presa in giro, alla immacolata concezione di Maria Vergine. L’impossibile si fa possibile e il desiderio di maternità/paternità si afferma oltre il ragionevole.
Insomma, Titane non guarda in faccia a niente e nessuno, procede dritto per la sua strada, sbandato, spericolato, con una regia che colpisce nel fondo dei nostri occhi e un’estetica del sangue al limite del gore.