The Irishman: l’opera definitiva di Martin Scorsese (?)
Recensione The Irishman di Martin Scorsese.
Ci sono film che segnano la storia del cinema ancora prima di essere visti. È un privilegio che spetta a pochi. The Irishman è tra questi eletti. E il segno che lascia una volta finita la visione è ancora più forte, duraturo, incisivo dell’impronta impressa dalla sua lunga attesa. Conteso dai festival più importanti del mondo e rimbalzato più volte a causa dei lunghi e allungati tempi necessari per la age correction dei suoi protagonisti, The Irishman racchiude in sé il passato e il futuro del cinema di uno dei maestri della settima arte: Martin Scorsese. Giunto alla veneranda età di 77 anni, il regista newyorkese conferma una lucidità invidiabile sotto vari punti di vista, dalla direzione degli attori al magnetismo dei dialoghi, dalla capacità di tenere alta e costante la nostra attenzione per 3 ore e mezza di film ad un’ultima mezz’ora dove cambia totalmente passo e ritmo narrativi per regalarci e concedersi una “elegia funebre” che è senza dubbio uno dei picchi di tutta la sua carriera.
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The Irishman racconta, e in un certo senso riscrive, la storia americana dagli anni Cinquanta ad oggi, attraversandola come un coltello affilato senza tralasciare il grande evento che l’ha ferita e ribaltata: l’assassinio di JFK. Ma sarebbe riduttivo limitare il discorso su questo film al caso Kennedy, che invece è solo una delle parti che lo compongono. The Irishman primariamente è l’incontro-scontro tra una storia privata e la Storia pubblica. Robert De Niro è Frank Sheeran, veterano del secondo conflitto mondiale che, tornato a casa, diventa fidato sicario della mafia italo-americana. Quello che vediamo è il racconto della sua vita ora che è “soltanto” un vecchio in carrozzina in una casa di riposo alle soglie dell’ennesimo Natale (parola che chiude il film).
Difficile dire se quella di De Niro sia la prova più abbagliante della sua carriera, tante ce ne ha regalate, molte delle quali proprio diretto dall’amico Scorsese (si pensi a quelle in Taxi Driver, Toro Scatenato, Re per una notte, Quei bravi ragazzi). Di certo è una prova da gigante di fianco ad altri due giganti: Al Pacino e Joe Pesci. Il primo è istrionico e irruente come al suo solito e riempie lo schermo con quel carisma che ben conosciamo. Ma a bene vedere è proprio il secondo a stagliarsi con più forza nella nostra memoria e nostra sensibilità grazie ad una performance cristallina, precisa, mai sopra le righe, all’apparenza anche sobria e minore in confronto ai due ingombranti colleghi. Per Joe Pesci è davvero la prova della vita, dietro una faccia invecchiata che parla da sola e due occhi a spillo che squarciano letteralmente lo schermo.
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Parafrasando una delle battute cardine e leitmotiv del film, The Irishman “è quello che è”: un capolavoro. Di quelli che, come i soli veri capolavori possiedono, lascia qualche dubbio e molti pensieri in testa giunti ai titoli di coda, cosciente però di saperli sbrogliare una volta lasciata decantare la visione-fiume di un film lungo un sogno. Da un lato un po’ canto del cigno e un po’ film-testamento, dall’altro punto zero che profuma d’inaspettato nuovo inizio, o forse entrambe le cose ma sempre e solo all’apparenza, The Irishman conferma che il vero irlandese (quindi “outsider” inarrivabile) tra gli americani è il regista più newyorkese tra i newyorkesi: Martin Scorsese.