The Greatest Showman: che spettacolo quel circo pop ai tempi di Dickens
The Greatest Showman di Michael Gracey è principalmente e sin dalla primissima sequenza un grande show. Cinema e circo si tengono forte per mano come due trapezisti nel vuoto, due forme di intrattenimento che in questo musical si fondono con un ritmo invidiabile, acrobazie al montaggio che divertono fino a galvanizzare e una serie di canzoni che conquistano anche il cuore più congelato.
Il genere del musical, americano soprattutto, si distingue lungo la sua lunga storia (si pensi a Il mago di Oz che risale al 1939) in due principali “momenti”, ovvero punti di non ritorno e filoni consolidati. Nei tempi più recenti ci sono stati due abbaglianti turning point, per motivi molteplici e diversi: Les Miserables di Tom Hooper nel 2012, ri-forma di film-Opera gigantista a livello sinfonico-visivo, e La La Land di Damien Chazelle nel 2016 che ha fatto breccia per il mix di spirito citazionista e gusto jazz. Ci sono poi i filoni consolidati, ovvero quelli formati da musical che “si assomigliano” e che, per questo, covano in sé una certa garanzia di successo. Tra questi Moulin Rouge di Baz Luhrmann nel 2001, Chicago di Rob Marshall nel 2002, Mamma mia! di Phyllida Lloyd nel 2008. Film non meno belli e non meno importanti, sia chiaro, ma privi di quella pretesa di “segnare una svolta”. Ecco, The Greatest Showman si inserisce nella squadra del “filone inossidabile”, quello che colpisce e impressiona il pubblico sempre e comunque, che punta a divertirlo cercando di rimanere impresso nella memoria (spettatoriale e del cinema) il più possibile ma rinunciando volontariamente al podio. The Greatest Showman è un festone di colori, un’esplosione di vitalità, di ritmo allo stato puro che non nasconde neppure un po’ la sua anima pop, molto pop, al limite del videoclip più cliccato sui social network. Le canzoni arrivano dritte a chi guarda, ora al cuore ora ai piedi che tengono freneticamente il tempo. The Greatest Showman è, passatemi l’assurdo, è un film da ballare. Ma non solo.
Infatti, la storia di P.T. Barnum e del carrozzone di strane creature umane che raccoglie e si porta appresso ha il pregio di porci di fronte, ancora una volta, a temi rodati su cui però la riflessione non è mai sufficiente: il diverso, l’ambizione, il riscatto e l’affermazione personale, il lavoro contro la vita privata. Barnum, interpretato da un brillantissimo ma mai eccessivo Hugh Jackman, è un ciclone che ora magicamente costruisce il successo e ora tragicamente distrugge i sentimenti più semplici, vicini, importanti. È l’immagine del businessman, precursore di un sogno americano da mordere fino al midollo, fino alla messa in discussione degli affetti inseguendo un ricco bottino al botteghino a causa dello spauracchio di un passato in bassifondi dickensiani che t’insegue come il fantasma del Canto di Natale.
The Greatest Showman è un greatest film, che non conosce neppure la vergogna di un digitale in molti passaggi fin troppo evidente. E non gli interessa nasconderlo. Contrariamente al credo dei grandi maghi, in The Greatest Showman c’è il trucco e c’è l’inganno, e vanno esibiti, perché ne va del folgorante e iper-arlecchinesco risultato finale. Poi insomma… il circo, come il cinema, è un grande imbroglio volontario al quale decidiamo d’assistere. E proprio come di questo film, come recita una delle sue canzoni portanti, non ne abbiamo mai abbastanza (never enough).