Sundown di Michel Franco: tramonto familiare con vista mare
Recensione di Sundown di Michel Franco, in concorso a Venezia 78.
Il tramonto, quando arriva, è un attimo. Un istante prima c’è ancora luce e un istante dopo è buio. Il cambiamento è repentino, graduale ma allo stesso tempo inaspettato. E da quel momento in poi, il buio viene giù come un sipario fuori controllo. Gli eventi iniziano ad ammassarsi uno sull’atro, la rovina si consuma a folle velocità, il tracollo è irreversibile.
Sundown di Michel Franco fotografa la degenerazione di un idillio familiare (fratello, sorella e i figli di lei) d’alto rango quando d’improvviso piove dal cielo un lutto. E l’evento è l’occasione per il fratello (Tim Roth) per slegarsi dal nucleo familiare, per isolarsi, per tagliare i ponti, complice anche una malattia degenerativa non confessata (e forse anche non conosciuta all’inizio del film, la sceneggiatura è sibillina su questo punto). Michel Franco gioca per sottrazione, per rarefazione, dei dialoghi, delle situazioni, dei gesti. Tutto è come lasciato ad un lassismo imperante, ad una pigrizia e una fatica di vivere dove si ha solo la forza di starsene a bere bottiglie di birra in riva la mare.
La performance di Tim Roth , che si carica sulle spalle quasi tutto il peso del film, è importante nel suo (o)stentato minimalismo e nichilismo, conferendo per assurdo un senso di pienezza al vuoto che abbraccia tutto il film. Sundown, però, sa come scuoterci inserendo nello script subitanei eventi violenti che ribaltano uno status quo solo in superficie immobile, ma in realtà ribollente di infelicità e spettri disastrosi. La regia punta quindi su questa commistione tra apatia di lunga durata, fulminei colpi di scena e sequenze oniriche (quelle col maiale nella doccia o in cucina) che arrivano dritte come revolverate.
Peccato per il finale, tranchant, inconcludente, non all’altezza del resto del film. Ma forse in linea col senso di indolenza, non-sense e pessimismo che accompagna ogni minuto della visione.