Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall) di Vahid Jalilvand: recensione
Recensione di Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall) di Vahid Jalilvand.
Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall) di Vahid Jalilvand, presentato in Concorso alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia, scava in profondità nella coscienza umana più esistenziale per divenire un film di denuncia sociale.
In Iran, l’ipovedente Alì sta per suicidarsi, quando alla sua porta bussa il custode dello stabile, chiedendogli di avvisarlo nel caso vedesse una donna accusata della morte di un agente di polizia. Leila, infatti, ha trovato nascondiglio proprio nella casa di Alì. Quando quest’ultimo scopre che la donna si trova nel suo appartamento, decide immediatamente di aiutarla.
Il regista ha affermato che la fonte d’ispirazione per il film è stata questa poesia:
Immagina che il mondo dorma e che nessuna lettera arrivi a destinazione.
Immagina che alcuni siano lontani o non siano stati in nessun luogo.
Immagina che tolgano il pane dalla tavola, le parole da un libro, i fiori dagli alberi e il sorriso dalle nostre labbra.
Cosa faranno ai nostri sogni?
Da questi versi prende forma Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall), in cui si parla senza peli sulla lingua di un regime guidato dagli ayatollah.
Il film procede per sottrazioni, e non a caso il protagonista è ipovedente. Il togliere diventa così cifra stilistica e poetica. Alla privazione fisica si sostituisce uno sguardo interiore che modella e deforma i ricordi e la memoria, talvolta a proprio favore e talvolta a proprio sfavore. L’Iran diventa una grande prigione in cui si cerca di manipolare tutto e l’unico modo per sopravvivere è deformare l’esistenza stessa per ritrovare un briciolo di umanità.
Shab, Dakheli, Divar (Beyond the Wall) è un film estremamente mentale, a tratti claustrofobico, che, nonostante alcune banalità nella risoluzione dell’intreccio, riesce a rimanere convincente. Se nella prima parte si scava l’anima, assumendo toni drammatici in cui si recuperano piccoli frammenti di eventi accaduti in vista del suicidio del protagonista, nella seconda l’arrivo di Leila fa riemergere nell’uomo istinti di bontà e amore verso il prossimo.
Assistiamo ad una “espansione” della scenografia, dove mura, pareti e scale divengono da elementi fisici elementi mentali: tutto si mescola e si confonde. È la mente che si è fatta luogo fisico o è piuttosto il luogo fisico che è divenuto mentale? Forse tutto è allo stesso tempo realtà e immaginazione. Poco importa però dove risieda la verità, quello che emerge è un Iran che accusa con fermezza la mano del Potere, un Iran nel quale si vorrebbe una società ipovedente e incapace di guardare oltre le apparenze. Ecco quindi che il collirio di Alì è medicina per tutta la società, strumento che, almeno per un poco, gli impedisce di essere sopraffatta.