Selva Tragica di Yulene Olaizola: recensione film Venezia 77
Recensione del film Selva Tragica di Yulene Olaizola.
Classico racconto realizzato su ambientazioni sudamericane, Selva Tragica, della regista messicana Yulene Olazola al suo ottavo film, riesce con successo a fondere le atmosfere magiche ed oniriche delle leggende Maya con una drammatica storia postcoloniale ambientata degli anni Venti sfruttando, in maniera esemplare e quasi documentaristica, tutte le sfumature verdi, afose e avvolgenti della foresta tropicale posta tra Messico e Belize, dove lavorano per almeno otto mesi l’anno i raccoglitori di gomma.
Nella giungla di Rio Hondo, la bella Agnes (Indira Rubie Andrewin) fugge da un misterioso uomo inglese (Dale Carley) che voleva sposarla. Ferita, viene raccolta da un gruppo di raccoglitori illegali di gomma, messicani e maya, anch’essi braccati da un padrone sfruttatore. Presto la situazione comincia prevedibilmente a degenerare e tra gli uomini iniziano a serpeggiare gelosie e rivalità sessuali innescate proprio da Agnes, la quale all’inizio appare come una sperduta prigioniera, ma poi si rivela essere, come tutti sospettano, l’incarnazione di Xtabay, un demone femmina della mitologia Maya, figura che la natura, ricca di tesori che vengono normalmente ed efficacemente difesi da spine, insetti e fiere, utilizza per respingere il più pericoloso dei predatori, cioè l’uomo.
Film volutamente privo di una precisa connotazione stilistica, Selva Tragica appartiene a molti generi cinematografici. La regista, infatti, con l’intento di trasmettere valori universali, ad esempio l’ambientalismo, lascia lo spettatore a dibattersi tra riprese iperrealistiche e visioni allegoriche, quasi mitologiche, che lo avvolgono e quasi lo soffocano proprio come farebbe la giungla.
È dunque la natura, nella suggestiva fotografia di Sofia Oggioni, e nella sua personificazione nella figura della bella Indira Rubie Andrewin, la protagonista di Selva Tragica. È lei, mentre gronda sangue bianco dai suoi alberi feriti, che porterà gli uomini a regredire ad uno stato primordiale, animalesco, privo di compassione e regolato da una selezione naturale sempre pronta a colpire.
Il racconto, suddiviso in tre diversi filoni narrativi, mantiene con qualche incertezza un certo equilibrio facendo leva su un fulcro che, ovviamente, è la figura di Xtabay. Purtroppo, però, l’operazione non riesce del tutto. Infatti, la sceneggiatura risulta più fragile e non all’altezza della fotografia e dell’incalzante montaggio che reggono e danno spinta al film.