Saint Omer di Alice Diop: processo alla maternità

Recensione di Saint Omer di Alice Diop.

saint omer filmRigoroso, radicale, ostinato. Come un processo, come la vita. Saint Omer di Alice Diop, presentato alla 79esima Mostra del Cinema di Venezia, è un vero pugno nello stomaco, per stile e contenuto. Una donna che uccide la figlia neonata, la paura che questo gesto possa riproporsi in altre donne, un processo che mette alla sbarra quei fili invisibili che legano ogni madre a quella creatura tenuta in grembo per nove mesi.

Duro, durissimo, ostico, ostile. Saint Omer non indietreggia di un passo rispetto alla sua severità morale ed estetica. Abbondano i primi piani e i mezzi busti, inquadrature fisse che creano un distacco tra personaggi e spettatori, con una asprezza intransigente, tanto abissale quanto umanissima. Uno sguardo etico e antropologico sul significato più profondo e perverso di maternità, appigliandosi però al versante opposto, al più atroce e indecente dei crimini: l’infanticidio. Saint Omer riesce in questo miracolo, citando apertamente la Medea di Pasolini, proponendoci uno spaccato sul senso dell’essere madre, una radiografia dolorosa, misteriosa, indecifrabile, come una chimera, una sfinge, un’entità mitologica.

Tutto pare rimanere a distanza (di sicurezza), fermo ad una sensibilità superficiale, epidermica, quando invece, senza che ce ne accorgiamo, scende in profondità con una crescente tensione morale, culturale, antropologica. Un film difficile, Saint Omer, esempio di un cinema che pensa a sé e non allo spettatore, che pensa all’arte per l’arte, egoista ed egocentrico. Ma ogni tanto, si sa, anche questo è salutare.

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