Rifkin’s Festival: il Woody Allen più cinefilo e leggero, anzi leggerissimo
Recensione di Rifkin’s Festival di Woody Allen.
Lo dico subito: non sono un fan di Woody Allen. Il suo humor non mi ha mai convinto. Anche se gli riconosco di avvicinarsi alla genialità. Di fronte alle opere degli ultimi dieci anni ho come l’impressione che siano tutte lo stesso film, che Allen (ab)usi di un repertorio vecchio e invecchiato, trito e ritrito, come di un barile il cui fondo è già stato raschiato a dovere. Eppure, gli riconosco che Rifkin’s Festival, con mia totale sorpresa, è uno dei suoi film più personali. E questo perché il regista newyorkese va a pescare nella sua memoria cinefila fitta di riferimenti, presenze, fantasmi, mettendo in scena il suo lato più nerd (filmicamente parlando).
Sarò chiaro su una cosa: Rifkin’s Festival non ha trama. Un vero plot, che si possa definire tale, non c’è. O meglio è esilissimo, denutrito, quasi inesistente, interamente votato e messo al servizio, come un nobile pretesto, ad un personaggio, Mort Rifkin, alter ego di Allen, che dallo psicanalista racconta di sé col fine unico di mostrarci on screen gli autori più amati da Woody Allen.
Rifkin’s Festival da questo punto di vista è un’opera alquanto piacevole, divertita e divertente, senza alcuna pretesa di “impressionare”. È un divertissement, un flusso di coscienza cinefilo, dove Allen ri-propone, ricorrendo al classico espediente del sogno, scene di film che ha amato e registi che lo hanno segnato. È così che vediamo omaggiati Quarto potere, 8 e mezzo, Jules e Jim, Fino all’ultimo respiro, Persona, L’anno scorso a Marienbad, Il settimo sigillo, e vengono citati registi senza tempo come Frank Capra, John Ford, Howard Hawks, Chaplin, Fellini, Truffaut, Godard. Woody Allen ha una scena o una battuta per tutti, in una lunga e dolce dichiarazione d’amore alle pellicole e agli autori che hanno reso grande la settima arte.
Rifkin’s Festival è così un’opera che “transita” da Allen a noi, dalla memoria di uno alla memoria di molti, dal singolo al collettivo, e forse proprio per questo, per questa sua vicinanza anche ai nostri gusti (e non solo alle idiosincrasie di Allen), che il film funziona più di altri. Alla veneranda età di 85 anni, e al suo cinquantesimo film in altrettanti anni di attività (Woody Allen è forse il più prolifico regista della storia del cinema con quasi un film all’anno, praticamente una vita sul set), il regista di Manhattan potrebbe chiudere qui la sua carriera, in modo leggero, anzi leggerissimo.