Tomb Raider con Alicia Vikander: il problema non è la taglia del reggiseno
Se la trasposizione cinematografica degli eroi dei fumetti riesce praticamente sempre con successo, il discorso si ribalta quando si tenta di portare sul grande schermo i protagonisti dei videogames. A sostegno di ciò è piombato il nuovo Tomb Raider che, malgrado un budget di ben 94 milioni di dollari, riesce in ciò che sembrava impossibile: far pensare alla vecchia saga con nuova comprensione e simpatia, sia nei confronti del film in sé sia nei confronti della protagonista.
Cominciamo proprio da quest’ultima. Nonostante questo reboot, di cui praticamente nessuno avvertiva l’esigenza, si rifaccia ai games più recenti, che presentano una Lara apparentemente più “umana” sia nell’animo sia nel fisico muscoloso ma nettamente più longilineo, nel pensiero collettivo da vecchi amanti del joystick la signorina Croft mantiene tutte le caratteristiche della supereroina “tipo”: super danarosa, super cool e con un carattere decisamente super volitivo. Esattamente il ritratto che ne aveva dato, pur con abbondanza di difetti, la precedente protagonista Angelina Jolie. Per questo viene subito da domandarsi: perché, prima di accettare il ruolo, Alicia Vikander non si è consultata magari in famiglia, visto il flop (sotto ogni punto di vista) incassato dal marito Michael Fassbender in Assassin’s Creed? Infatti, al di là della ridotta misura di reggiseno, è il dolce sorriso e lo sguardo da cerbiatta della nuova Lara ad essere spazzati via nell’immediato e scontato confronto con quelli felini e vagamente ferini dell’ex signora Pitt. Perché è proprio nell’atteggiamento che il contrasto tra le due risulta più stridente: la vecchia Lara non avrebbe mai, ma proprio mai, tranquillamente accettato di arrendersi a chi l’ha presa a calci nel sedere in un combattimento corpo a corpo, né si sarebbe fatta investire per distrazione mentre sfreccia in bicicletta per le vie di Londra.
La responsabilità, quindi, è da ricercare in parte nella soporifera e poco riuscita regia di Roar Uthaug, che con The Wave ci aveva abituato a ben altre spinte adrenaliniche, e in parte nell’anonima sceneggiatura di Geneva Robertson-Dworet, la quale riesce nella non facile impresa di scontentare al contempo vecchi giocatori e nuovi spettatori. Furbescamente, nel tentativo di stare con un piede in due staffe, nella prima parte del film lo script gioca la carta introspettiva, nella seconda quella avventurosa, ma fallisce miseramente in entrambe. L’azione, poi, fa acqua da tutte le parti. Pur concedendo che bisognava onorare il titolo del film, non occorreva ammorbare gli spettatori con inseguimenti nelle foreste orientali, voli col paracadute, ritrovamenti di tombe enigmatiche per salvare il mondo dall’ennesima malvagia associazione criminale. Tutto già visto, rivisto e stravisto non solo nell’opera precedente ma, soprattutto, in “predatori” archeologici di ben altra caratura cinematografica.
Si salvano da questo disastro solo Kristin Scott Thomas, nel ruolo di Ana, e Derek Jacobi, nel ruolo del notaio, ma semplicemente perché relegati al semplice cameo.