La casa di carta: la serie populista di Netflix
Guest post scritto da Fabio Raffo
redattore per il sito Action Parallèle
Negli ultimi anni il populismo, come termine e concetto, ha conosciuto una diffusione eclatante. I media e la politica hanno abusato di questo termine per definire nuovi fenomeni emersi nel panorama contemporaneo: basti pensare, nel contesto italiano, alla recente affermazione elettorale del M5S, oppure, allargando l’orizzonte, a Ciudadanos e Podemos in Spagna, al fenomeno Trump in America. La diffusione di nuovi soggetti politici ha legittimato la moda dell’utilizzo di questo termine: si potrebbe autorizzarne pertanto l’uso in altri contesti, come ad esempio il cinema o la produzione di serie televisive. Ecco, a mio avviso La casa di carta, serie spagnola disponibile su Netflix, propone contenuti ed una forma eminentemente populisti.
Il titolo, in primis, rimanda volutamente e in modo fuorviante alla serie House of Cards, che ha riscosso un successo conclamato di pubblico e critica. La serie spagnola, dal titolo originale La casa di papel, s’appoggia in parte su questo successo per parlare di tutt’altro rispetto ad House of Cards. La traduzione italiana approfitta di questa ambiguità e ciò fa pensare ad un’operazione commerciale e di comunicazione da parte di Netflix un po’ spregiudicata. Netflix, tra le altre cose, ha deciso di cambiare il “formato” della serie spagnola per mantenere i suoi ascolti più alti. La durata di ogni episodio, infatti, è stata accorciata da un’ora circa a quaranta minuti e la serie è stata divisa in due. Insomma, ogni mezzo è buono per allungare il brodo. Rispetto ad House of Cards, il cui titolo vuole essere una metafora per definire il castello di carte spesso costruito dal Potere, La casa di carta racconta della presa di ostaggi nella zecca nazionale spagnola da parte di un’agguerrita banda di rapinatori. Ironia del destino, in questo caso il titolo denuncia, a sua insaputa, le varie fragilità della trama e della sceneggiatura.
La serie comincia da un presupposto apparentemente radicale: il gruppo di rapitori-rapinatori, guidati dalla figura enigmatica del Professore, è dipinto come una banda dagli ideali alla Robin Hood, con una vaga idea di lotta di classe annegata in litri di azione e colpi di scena melodrammatici. Il Professore vuol far sì che il suo gruppo scalcinato diventi una sorta di erede degli indignati spagnoli, di coloro che resistono ad un tremendo sistema liberista e ai fascismi di ieri e di oggi. La serie resta preda delle proprie contraddizioni, ora sadica e violenta, ora passionale e tendente a toni poetici. Il richiamo a “Bella ciao”, che il gruppo canta in coro più volte, e remixato fin troppo nelle scene d’azione, esplicita un messaggio che diventa indigesto per non dire di cattivo gusto.
La prima stagione de La casa di carta si conclude con dei video della crisi del 1929. Non è chiaro se sia una scelta della produzione spagnola o di Netflix, sta di fatto che rimane l’unico momento in cui il messaggio si libera dalla sua superficialità diventando interessante. La crisi economica del 2008, citata nella serie, viene paragonata a quella del 1929, a cui sono succeduti i vari fascismi europei crollati dopo una guerra terrificante. I rapinatori vorrebbero essere i nuovi partigiani che si oppongono ad un presente e un futuro assai inquietanti. Un’idea affascinante che la serie spagnola ha scelto di rappresentare nel modo peggiore e più superficiale: rintronare il povero spettatore di scene d’azione ben girate ma esagerate, intervallate da qualche frase di richiamo sulla situazione presente. Il tutto senza neanche fare uno sforzo per coprire i buchi vistosi e contraddittori della narrazione rimasti nel finale, a meno che la scelta non sia quella di continuare ad allungare il brodo senza che sia rimasto granché da raccontare. Insomma, a La casa di carta manca un lavoro serio di sceneggiatura. Ha preferito prendere una via più facile, ovvero quella populista.