Piuma, l’insostenibile leggerezza dell’essere genitori
“Nostra figlia ci deve avere un nome che è tipo una parola magica, che nei momenti brutti la fa volare su sto casino che è il mondo. Deve essere tipo una piuma, ecco Piuma si dovrebbe chiamà”.
Piuma. Nomen omen. Nel titolo del nuovo film di Roan Johnson c’è già tutta la nobile leggerezza che lo avvolge. Un film che vola sopra i canoni (classici) della commedia italiana e sopra le perfide dicerie della gente. Della stampa in primis. Sì perché Piuma è stato fischiato e appellato con uno scriteriato “Vergogna!” alla proiezione stampa al Festival di Venezia, dove era in concorso. Ma la stampa, si sa, quando ha se stessa come protagonista della news, tende sempre ad ingigantire l’accaduto. E così qualche isolata e maleducata reazione di pochi è passata come reazione di molti. Ma Piuma se n’è fregato, è andato in Sala Grande alla proiezione ufficiale ed è stato accolto da un lungo scroscio di applausi, anticamera al bottino di premi collaterali vinti, ossia il Premio Speciale Francesco Pasinetti, il Premio Signis, il Premio Civitas Vitae e il Premio della Fondazione Mimmo Rotella.
“Il film più leggero dell’anno” recita lo slogan che lancia il film, il quale quindi auto-denuncia la sua levità. Che però stavolta non fa rima con stupidità e banalità, come troppo spesso capita nel cinema italiano, soprattutto sotto Natale. Piuma è un piccolo grande film. Un long take a più riprese spassoso, spalmato su nove mesi per immortalare una tragi-commedia di estrema quotidianità con estrema sincerità. Sì, perché è la sincerità il vero tratto distintivo del film. Sincerità che si fa romanticismo, risate a briglia sciolta, fluida riflessione sull’essere genitori. Sia da grandi che da giovanissimi.
Piuma, infatti, col pretesto di raccontarci le disavventure di due diciottenni alla prese con una gravidanza inaspettata, si apre a guardare in faccia gli adulti, i genitori in senso stretto, con le loro miopie, debolezze, egoismi e (spesso) la mai raggiunta maturità per essere (stati) “tutori” dei loro figli. E questo è possibile grazie ad una sceneggiatura ben scritta, che intreccia bene (ma non strozza) i cordoni ombelicali, sapendoli tagliare al momento giusto, e ad una regia con ciak lunghissimi che lasciano trasparire e traspirare le emozioni e l’emotività dei personaggi.
Roan Johnson è un regista irriconoscibile. I primi della lista (2011) e Fino a qui tutto bene (2014) appaiono ora come due prove d’allenamento, in cui ha preso le misure e confidenza con storie e macchina da presa. Piuma cammina saldo con le proprie gambe, come un bambino già grandicello, “figlio” di un regista che ha fatto passi da gigante. Un regista che tenta anche un colpo d’autore dal gusto onirico con quelle nuotate sopra la città di Roma in un mare che sa di liquido amniotico (un po’ ci ricorda i bagni nel latte di uomini e ortaggi in Nuovomondo di Crialese). Insomma, una stoccata d’autorialità che un po’ stona e un po’ spiazza positivamente, sintomo del coraggio di chi, di quel “liquido di vita”, si è già cibato anche a livello cinematografico.