Marseille: political soap drama che destabilizza (noi e Netflix)
C’è qualcosa di inspiegabile, forse inconcepibile, di sicuro misterioso ed enigmatico nel modo in cui è stata assemblata Marseille, la prima vera serie tv europea targata Netflix, da cima a fondo made in France, prima rischiosissima scommessa giocata dal colosso dello streaming americano in Europa. Perché Marseille è capace d’essere allo stesso tempo di serie b e intrigante, scritta a più riprese grossolanamente ma pure capace di tenere alto l’appeal dello spettatore. C’è come la mossa di uno stregone dietro, di un gran maestro, che ha saputo dosare gli elementi nel modo più spudorato e raffinato contemporaneamente. C’è qualcuno che il (sistema-)cinema lo conosce e che sa (che) farne, nel bene o nel male. Quel qualcuno si chiama Pascal Breton, lo “specialista” delle soap opera francesi, il fondatore nel 2013 di Federation Entertainment, che ha prodotto e distribuito series francesi e internazionali, come l’acclamata The Bureau rilasciata su Amazon Prime UK e The Collection, la prima serie europea di Amazon sul mondo della moda nella Parigi del dopoguerra.
“Il vero potere non si dà, si prende” è uno dei mantra di Marseille, o meglio dei suoi due protagonisti, Gerard-Re di Francia-Depardieu (una prova di peso, la sua, anche facendo il minimo sforzo, ma per i grandi attori dopo anni d’esperienza è normale amministrazione) e Benoît Magimel (troppo trincerato nella maschera del giovane arrivista, troppo in posa e troppo poco penetrante oltre gli occhiali da sole sempre indosso). Ecco, la serie si comporta allo stesso modo: mette un piede nella porta di Netflix, lo fa con forza e prepotenza, conscia dei suoi tanti difetti, ma anche di come, una volta entrata, sarà dura cacciarla via (lo dimostra il fatto che a breve uscirà la seconda stagione).
Marseille è un political drama scorrevole ma lunatico, altalenante ma coinvolgente, con alcuni colpi di scena inaspettati ed altri a dir poco prevedibili, sconfinando a più riprese nella soap opera da Rai Tre con dialoghi tagliati grossi e l’iterazione di tocchi stilistici (come i ralenti con la voce fuoricampo che evoca ricordi o frasi dette negli episodi precedenti) che se da un lato fiaccano dall’altro fidelizzano lo spettatore.
La regia, tranne un paio di casi velocissimi e facilmente dimenticabili, non ha guizzi e si stabilizza sul livello televisivo, ma è sostenuta da un montaggio serrato, di tante piccole e brevi sequenze dentro ogni episodio, chiuse ciascuna da un taglio netto, come una ghigliottina di fine Settecento, che quindi frammenta ma scongiura la noia di chi guarda.
Interessante e funzionale la scelta di Marsiglia come sfondo e allo stesso tempo assoluta protagonista, città multietnica come poche altre, città “europea” nel senso più eterogeneo del termine, incarna le molteplici e contrastanti anime di Marseille, ne è lo specchio, il riflesso su quel mare tra lo stupore e la delusione che proviamo di fronte ad ogni serie tv.
Al di sotto, quindi, di tutte le altre produzioni originali Netflix, Marseille non è paragonabile con l’apparente cugina Suburra né tantomeno è avvicinabile ad House of Cards. E non vuole aver niente a che fare con nessuna delle due. Perché Marseille è, a costo di non piacere e di scadere nel kitsch, è qualcosa di unico e inimitabile, tanto da essere disposta a lasciare schifati molti. Non lascia vie di mezzo, o la si ama o la si odia. Io, anche se ancora non mi so spiegare bene il perché, le ho voluto molto bene. Come una cotta giovanile che non si sa più spiegare una volta grandi.