Mantas Kvedaravicius: “Racconto personaggi e sentimenti invisibili”. Intervista.
Esordio nel cinema di finzione del regista lituano Mantas Kvedaravicius, Partenonas è stato tra i film in concorso alla 34esima Settimana Internazionale della Critica durante Venezia 76. Abbiamo incontrato il regista, ecco cosa ci ha raccontato.
Il tuo film è come uno studio etnografico visivo: come è nato Partenonas?
Il film ha richiesto una lunga lavorazione. Nasce dall’interesse per certi luoghi, per certi modi di essere e per certi tipi di espressioni o carichi emotivi. Penso che il film venga fuori da questo. Penso che lo studio, o qualsiasi cosa il film sia, sia però a livello superficiale in quanto espressione solo di un certo tipo di visione per certi modi di essere.
Attraverso i personaggi e i luoghi dove essi agiscono, il film sembra focalizzarsi sul corpo e sulla memoria: è così?
Penso che certe situazioni tendano, specialmente quando vengono filmate, a trasmettere una certa intensità.
Beh, tu hai girato in tre diverse città…
Sì, differenti città, personaggi con profili mentali diversi e quindi differenti situazioni. Per me il punto di vista e la memoria sono solo un modo con cui possiamo concettualizzare quello che vediamo e, normalmente, sono dei pregiudizi. Cominciamo un certo progetto o ricerca, poi però diventa qualcos’altro. Per me, quel che diventa è una categoria diversa di cui non si ha un’immagine predefinita. Se funziona, questo è il bello di questo tipo di tentativi, perché giungi a qualcosa a cui non avevi ancora pensato.
Quindi hai deciso di osservare questi personaggi perché le loro vite ed esperienze sono pressoché invisibili?
Penso che questi personaggi provengano da qualche luogo dove è possibile osservare queste vite e queste situazioni nel mondo contemporaneo: forse sono invisibili o forse sono resi invisibili…
Nessuno vede queste persone…
Credo esistano mondi di sentimenti di differenti intensità di cui noi non ci curiamo, ma che sono connessi alle persone che da sempre non vengono ritenute in grado di avere veri sentimenti e a cui si nega una certa profondità.
Quindi qual è il messaggio del tuo film?
Penso dipenda da come guardi e da come concettualizzi qualcosa che può essere un film. Per me è abbastanza che tu ti renda conto della mia presenza in certi punti del film in cui osservo ciò che accade come lo farebbe qualcuno che lo vede per la prima volta ma, allo stesso tempo, sono anche al livello successivo, dato che sono connesso allo spazio, al tempo, ai corpi e alle storie che sono state dipanate nel racconto. Per me questo vale come il messaggio in sé, perché con la forma arriva il messaggio. Io non ho un messaggio chiaro. Se qualcuno ne avesse uno probabilmente avrebbe scelto un’altra forma e non questa, perché penso che questo sia un modo che non trasmette un messaggio.
Questo tipo di studio necessita di un’osservazione oggettiva ma anche di una certa immedesimazione: credi che il pubblico, attraverso il tuo film, potrà riuscirci?
Se ti fermi e abbandoni i preconcetti che avevi riguardo all’etica e alla morale che seguo nel mio lavoro, e anche quelli riguardanti le apparenze sociali, allora ci ritroveremo connessi in un modo diverso. Esistono differenti sensibilità e differenti approcci, queste connessioni avvengono.
Perché Bandiera rossa? Come la conosci?
Esistono diverse connessioni fra i personaggi e le cose che fanno. In questo caso ce n’è uno che canta e insegna la canzone a qualcun’altro perché essa è parte della sua storia. Anch’io conosco la canzone, ma l’ho inserita nel film perché Bandiera Rossa è parte della storia del personaggio, non della mia, proviene da ciò che ha imparato ad un certo punto della sua vita.