La pazza gioia, Virzì il mago.
Dieci minuti d’applausi al Festival di Cannes, un tamtam pubblicitario non indifferente, l’attesa per un regista molto amato dal pubblico italiano. Insomma, come per magia (o pazzia?) Paolo Virzì ha nuovamente attratto su di sé le attenzioni del cinema italiano e non solo. Ma La pazza gioia è davvero quel gran filmone come molti hanno detto?
Lasciamo fare il trionfo cannense, perché da che mondo è mondo esistono le claque negli entourage dello spettacolo. E lasciamo perdere anche il dovuto e doveroso insistere pubblicitario che ha caratterizzato il film. Concentriamoci invece sul rapporto tra Paolo Virzì e il suo pubblico. Perché Virzì, sin dai suoi esordi, un po’ come Nanni Moretti, devo molto agli spettatori. Uomini e donne che oramai conosce a menadito, perfettamente a proprio agio nel proporre loro un film popolare con la maschera del film d’autore. Ecco, da questo punto di vista La pazza gioia è un film furbo, quintessenza di un regista che sa strizzare l’occhiolino alla sala, cosciente di come questa possa essere affascinata (o abbindolata?) con facilità.
La pazza gioia, sia chiaro, è un bel film, anzi un buon film. Ma pieno di debolezze ed incertezze, camuffate però ad arte, in modo che gran parte del grande pubblico (ovvero quello che va al cinema una volta l’anno proprio per vedere Virzì) non se ne accorga.
Al centro, come già in passato (si pensi a Il capitale umano, La prima cosa bella, Caterina va in città) il trito e ritrito rapporto genitori-figli, tema assai caro a Virzì. La pazza gioia è l’ennesima variazione sul tema, solo che stavolta (a dire il vero già con La prima cosa bella) il fulcro sono le donne, due donne interrotte, due figure femminili incomprese dal mondo. Due personaggi agli opposti: Beatrice è un’ex nobildonna che ha conosciuto “il Presidente” (anzi i Presidenti), dalla lingua indomabile e biforcuta, alla disperata ricerca della normalità quando invece è matta da legare. Donatella è una giovane donna psicologicamente instabile, piena di tatuaggi, dalla voce rotta, accusata di tentato omicidio del figlioletto di pochi mesi. La prima ha una gran voglia di chiacchierare e di attenzioni, la seconda di silenzio e di solitudine. Ma talvolta, si sa, per ignote alchimie, gli opposti si attraggono. Il risultato è un’inaspettata apertura alla vita, in fuga dalla villa/manicomio che le ospita e imprigiona.
La pazza gioia è un film diviso a metà, un po’ come Beatrice e Donatella possono essere “lette” come le due facce della stessa medaglia. La prima metà è pregevole, punta a descrivere personaggi e atmosfere, ambienti e contraddizioni, con esiti che ricordano, pur con meno ironia andante, Si può fare di Giulio Manfredonia. Poi qualcosa si streccia, si strappa, e Virzì comincia ad inanellare una serie di colpi di scena faciloni (a ben ricordare così era stato anche per Il capitale umano) e dal retrogusto poco credibile. Quello che poteva essere uno spaccato di realtà si tramuta così in una favola d’oggi, di quelle che sanno anche strapparci più di una lacrimuccia. Ma è un cambio di fronte che stronca in due il film e che rischia di spaccare in due anche il giudizio del pubblico.
Registicamente Virzì è sempre più maturo, sempre più fluido, e questo è un grande pregio dimostrato ne La pazza gioia. Sono i contenuti, i risvolti della sceneggiatura a farci storcere il naso. Una sceneggiatura scritta a quattro mani con Francesca Archibugi, che quest’anno ci ha convinto con il non-remake de Il nome del figlio. Una sceneggiatura che (si ap-)poggia sulla bravura delle due interpreti, Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti. La prima abbaglia nella prima parte del film, poi alla lunga diventa insostenibile. Per fortuna che passa il testimone alla seconda, la quale, dopo una partenza in sordina, continua in crescendo e conducendo il film in porto sino al finale fin troppo didascalico. Insomma, sono due (robuste) ancore di salvataggio che cercano di salvare il salvabile. Perché La pazza gioia fa acqua da più parti, ma con una pezza lì e una pezza là riesce a tenersi a galla, e ad andare più lontano dei limiti dimostrati. Oracolo di Virzì.