La gatta sul tetto che scotta

La gatta sul tetto che scotta nel 1954 valse a Tennessee Williams il secondo premio Pulitzer dopo quello ricevuto per Un tram chiamato desiderio. Un premio importante, pesante, che la dice lunga sulla complessità e la profondità di un testo teatrale che indaga l’infelicità di una coppia e l’ipocrisia di una famiglia.

la-gatta-sul-tetto-che-scottaUna pièce quindi molto impegnata e impegnativa per il debutto teatrale assoluto di Vittoria Puccini, diretta da Arturo Cirillo e affiancata da Vinicio Marchioni. Un trio, regista e attori protagonisti, che pare però privo del physique du rôle richiesto dal testo e dai personaggi. Vittoria Puccini, con voce rauca tra attrice âgée e gatta fioca, ci si mette d’impegno per fare il meglio che può. Questo le va riconosciuto. E nella prima parte, in un’atmosfera che ricorda la scena in camera da letto di Eyes Wide Shut di Kubrick, a tu per tu con un monologo che a più riprese diverte il pubblico, pare quasi convincere. Ma è l’ombra di una tigre per una timida micetta sul palco che scotta quando irrompono gli altri della compagnia. Il livello si alza, si parifica, e lei rimane sotto, parzialmente schiacciata.

Inaspettatamente non fa meglio Vinicio Marchioni, il quale resta impostato dall’inizio alla fine dietro una voce forte e chiara, ingessato come quella gamba rotta che Brick è costretto a trascinarsi dietro. Rimane freddo come il personaggio che lo ha reso famoso nella serie tv Romanzo criminale di Stefano Sollima. È ubriaco, ma non troppo, mai a tal punto da lasciarsi andare ad una recitazione più sentita e sofferta. Toni impostati e frenati che salgono d’improvviso con l’entrata in scena dei bravi Paolo Musio e Franca Penone, che alzano sì il livello della recitazione, ma anche l’enfasi melodrammatica urlata e modulata in volumi mucciniani. Insomma, la Puccini non è abbastanza Maggie, Marchioni non è abbastanza Brick. Gli altri fanno solo il proprio mestiere d’attori.

Sottotono anche la regia di Cirillo, che si limita ad un giocattolo telecomandato, tenero e horror allo stesso tempo, che attraversa la scena all’apertura del sipario e ad un muro a scorrimento che si apre e si chiude, come le mura di un tempio borghese, su un verdissimo e rigoglioso giardino, unica valvola di sfogo di un’ambientazione algida e claustrofobica.

2 commenti

  • Leonardo Serrini

    Purtroppo non sono stati colti gli aspetti più significativi di questo dramma. Mancano parti fondamentali e al contrario si dilungano scene di poca importanza. Volendo fare un commento più impersonale condivido quanto scritto sopra, ma più semplicemente, da spettatore deluso, mi sento di dire che la regia è stata pessima nell’impostazione e gli interpreti al massimo mediocri, con l’eccezione di un discreto Paolo Musio, al quale la sbadata regia toglie però la possibilità di interpretare le scene portanti dei migliori significati.
    Addirirtura anche la sostituzione di “BALLE!” con “MINCHIATE!” la trovo inadeguata!

    • Sì Leonardo, sono d’accordo con te. La scelta del termine “minchiate” forse, nella vaga idea registica, era per rendere il tutto più tragi-comico, cioè far ridere il pubblico quando in realtà si sta consumando un dramma. Un mezzuccio insomma…

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