La buca: stavolta Ciprì non fa centro
Per Daniele Ciprì, alla sua seconda volta da regista senza la storica spalla Franco Maresco, La buca forma con E’ stato il figlio (2012) una sorta di “dittico del risarcimento”.
Anche stavolta al centro il tema del denaro e un “riscatto” allo stesso tempo economico e sociale per due personaggi disperati e soli, uno misantropo e l’altro bisognoso d’affetto. Di fondo il solito tono grottesco che contraddistingue tutta la filmografia di Ciprì. Ne La buca però viene meno quel sentimento tragicomico che scaturiva dalle vicende della disordinata famiglia Ciraulo capitanata da Toni Servillo. E viene meno perché la sceneggiatura è debole, accennata, impalpabile.
Il plot è semplice: Armando (Rocco Papaleo) ha pagato con 27 anni di galera un reato del quale era innocente; Oscar (Sergio Castellitto) è un avvocato da quattro soldi che si sente Perry Mason e che applica la legge a truffe da lui stesso architettate. Inizialmente truffato da Oscar, Armando ne diventa presto il baluardo per un’impresa eroica: un risarcimento di svariati milioni per lenire l’ingiustizia subita (in E’ stato il figlio c’era un risarcimento dallo Stato per vittime di mafia). Ma ottenerlo non sarà facile…
La buca di Ciprì ha lo stampo di una commedia all’italiana, di quelle dei tempi d’oro del cinema italiano. Ne ha lo stampo, ma non il passo. Il personaggio di Oscar sembra un nuovo mostro di Dino Risi, ma si limita alla maschera. Ecco quindi quello che manca a La buca: lo scheletro forte di una sceneggiatura capace di dipingere caratteri e situazioni. E’ stato il figlio era una carrellata di maschere di un’umanità mostruosa che però nascondeva e rivelava di sé un forte attaccamento alla realtà. E’ stato il figlio aveva dentro una rabbia e un desiderio che trapelavano dai bordi del quadro filmico, e i toni marcati della recitazione non oscuravano il realismo dei sentimenti. La buca marca sì meno i toni, ma perde anche in verismo, così che non c’è cattiveria e non c’è cinismo in questa favoletta moderna senza morale.
Non basta una splendida fotografia fuligginosa a colmare la buca di una sceneggiatura latitante. Non basta un Sergio Castellitto in formissima, padronissimo di ogni espressione facciale. Non bastano dei titoli di coda e un altro paio di inserimenti animati a distrarci. Ciprì cerca di tappare come può le falle del suo film, ma è catrame che non tiene.
Insomma, il colpo di Ciprì questa volta non va in buca. Anzi il film comincia in una buca e lì vi rimane, non esce, non guarda fuori, non balza mai su a risvegliarci da un torpore che piano piano ci prende.
“Con il mio cinema mi piace raccontare qualche cosa che esiste ma spostandolo in un contesto grottesco, surreale, che mi allontana molto dal resto del cinema italiano. Non sono mai stato realista, quando Wim Wenders è venuto a Palermo in cerca di sopralluoghi ha chiamato noi ma gli abbiamo spiegato che non siamo le persone giuste”.
Questa una frase tratta da un’intervista rilasciata da Cipri a Repubblica il 26 settembre scorso.
E del resto non è difficile comprendere come il “verismo” non sia mai stata una cifra stilistica appartenuta a Ciprì, che ha sempre collocato i propri personaggi al di fuori dal tempo e dalla storia…
Forse con un po’ d’ignoranza in meno ci sarebbe un po’ più di prudenza a dichiararsi critico cinematografico e a scrivere male di cose che forse non si ha capito.
Cordialmente,
Luciano Forlese
Caro Luciano, grazie del tuo commento, esprime un interessante punto di vista. a presto