L’odore assordante del bianco: l’assordante bellezza del Van Gogh di Preziosi
Nel titolo c’è già tutto quel senso trasversalità e multi-sensorialità che la pièce vuole e riesce a trasmettere. I colori, tangibili e oggetto della vista, emettono suoni e odori, stimolando quell’orecchio (mutilato) e quell’olfatto (troppo spesso trascurato) che molti quadri di Van Gogh rilasciano nell’aria. Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco è uno spettacolo che graffia, un po’ come le dita del pittore sui suoi quadri quando mancavano i pennelli. Uno spettacolo forte, pregno di vita, compressa in una stanza ma pur sempre vita desiderosa di tuonare, anche di dolore, follia e genio. Disperato e lucidissimo come il suo protagonista, Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco ci conduce nella mente furibonda e centrata di un pittore a lungo incompreso e poi amatissimo, forzando il romanzato fino a quell’estremo che non stona ma ipnotizza la platea.
Il bianco. Tutto è bianco in scena. Le mura, giganti, solide, ma distorte come in un quadro espressionista; il pavimento, chiazzato e candido allo stesso tempo, vissuto e striato da mattonelle sciupate, come consumate dal girovagare del suo detenuto, come una tavolozza seccata da tempo immemore; una parete di fondo, lattea e incisa, come uno di quei quadri che occupano un’intera parete in un grande museo europeo, che in controluce palesa il celebre Campo di grano con volo di corvi dipinto dal pittore olandese nel 1890 e conservato ad Amsterdam. Bianche le vesti di recluso di Van Gogh, bianche quelle di dottori e infermieri del manicomio di Saint Paul de Manson, bianco quel fiore confinato in un angolo e dimentico dei colori della natura. A dare colore a tutto ci pensano il densissimo testo di Stefano Massini e l’interpretazione marcata ma mai schizofrenica dell’intero cast, capitanato da un Alessandro Preziosi che si muove, corpo e voce, con profondità e varietà che saturano il palco. Con l’andatura di un gobbo di Notre Dame e la forza di un Atlante che non cede sotto al peso della detenzione e della privazione, “piegando il collo come il gambo di un fiore” diceva Roberto Vecchioni in una sua canzone (Vincent), Preziosi esprime tutto il turbinio interiore di un uomo che, come in una commedia di Pirandello, passa lucidamente dalla pazzia più abbacinata alla ragionevolezza più nitida. È un genio instabile, come dimostra il piano inclinato del palco, come se tutto dovesse scivolare e capitolare da un momento all’altro sulla platea, come un fiume di colori improvvisamente esplosi da quel bianco che li (r)accoglie e imprigiona tutti.
La regia di Alessandro Maggi in Vincent Van Gogh. L’odore assordante del bianco gioca principalmente con le luci, quella luce che cambia la realtà e le sfumature dello spettro cromatico. Gioca con le ombre, sagome di uomini e delle loro anime rinchiuse in quattro mura che fungono anche da luogo di una mente fervida e (in)ferma. Gioca con poco, per poi deflagrare nel finale in un giallo oro, che tinge meravigliosamente quelle pareti bianche a mo’ di gabbia dorata, luccicante, come quel grano e quei girasoli che Van Gogh tanto amava contemplare e dipingere.
[visto al Teatro della Pergola di Firenze]