Iron Fist e Designated Survivor: recensione stagioni 2017
Guest post scritto da Fabio Raffo
redattore per il sito Action Parallèle
Premessa: le serie di cui scrivo hanno tra loro come tratto comune unicamente il fatto di essere uscite nel 2017. Ulteriore specifica: quasi tutte le serie trattate sono in produzione già da qualche anno, pertanto mi concentrerò sull’ultima stagione uscita.
Partiamo da Iron Fist, che s’inserisce nel filone macro-narrativo che Netflix ha dedicato all’universo Marvel e di cui vedremo presto (ad agosto) il cross-over con la serie The Defenders, in cui torneranno protagonisti tutti insieme Daredevil, Jessica Jones, Luke Cage e Danny Rand. Per quanto riguarda Iron Fist, mi unisco al coro delle critiche che hanno trovato questo prodotto abbastanza deludente rispetto alla qualità finora impressa nelle serie dedicate ai supereroi.
Le ragioni sono numerose e forse non sarò neanche esaustivo. Intanto vi è una scelta di casting alquanto superficiale. Finn Jones, l’attore protagonista, sembra essere piazzato lì per fare la bella figurina. L’attore era apparso in Game of Thrones in un ruolo minore a lui più congeniale, nel quale riusciva a mostrare con un certo talento il contrasto tra la sua apparenza di cavaliere bello e coraggioso e la realtà (un essere piuttosto vile e peraltro col vizietto di preferire il letto del re alle sue varie spasimanti). Se Jones se la cavava benino in ruoli minori, il salto verso il ruolo da protagonista è stato rovinoso. Va detto che non è aiutato molto dal personaggio interpretato: mentre gli altri eroi Marvel/Netflix rappresentano categorie sociali discriminate (un cieco, una donna, un nero), Danny Rand (alias Iron Fist) è l’erede al comando di una grande multinazionale, fatto che non aiuta l’immedesimazione dello spettatore. A ben pensarci, i personaggi più convincenti sono la famiglia Meachum, specialmente Ward (Tom Pelphrey) e Harold (David Wenham), che dipingono un ritratto assai preciso di chi è infido e senza scrupoli. Non a caso l’intrigo più interessante della serie si concentra sulla leadership della multinazionale di Rand, poi la storia prende troppe direzioni incerte e poco convincenti. Viene quasi da chiedersi il perché di questa produzione. Difatti è l’unica delle quattro serie sui supereroi a non essere stata rinnovata per una seconda stagione, almeno per il momento.
È certo invece che Designated Survivor continuerà a vivere nella seconda stagione nell’autunno 2017, ma anche in questo caso ci si potrebbe chiedere il perché. Eppure l’idea della serie era piuttosto interessante al suo esordio: la nomina del “designated survivor”, un membro del gabinetto, interno al governo americano, che negli anni della Guerra Fredda, in caso di grave incidente, viene indicato come presidente degli Stati Uniti. Così accade nella serie, in cui un attentato terroristico distrugge il Campidoglio a Washington ed elimina tutti i membri del governo. Tutti tranne Tom Kirkman, oscuro sottosegretario all’urbanistica, completamente digiuno di politica, costretto a diventare presidente USA e a far fronte ad una situazione d’emergenza piuttosto grave. L’intrigo suona accattivante e i primi episodi scorrono con un ritmo di tensione frenetico che coinvolge molto lo spettatore. Kiether Sutherland, nel ruolo del presidente, è convincente, e il fatto d’essere l’unico buono in un branco di squali mantiene alto l’interesse. Ma la stagione dura ben ventidue episodi e i colpi di scena fatalmente diventano assurdi, mentre la dose di retorica e patriottismo americano raggiunge un livello inaccettabile. Francamente è quasi un miracolo che la serie riesca a mantenere un filo più o meno decente fino alla fine. Per le posizioni che assume, un tono di vago centro-sinistrismo potrebbe quasi suonare come un baluardo involontario di resistenza di fronte alla degenerazione del potere con Donald Trump. Ma la serie non ha le qualità necessarie per poter pretendere queste vette, né tantomeno per poter mai rivaleggiare con House of Cards. Se l’intenzione della serie era poter offrire un discorso diverso sul potere, più umano e più buono rispetto a House of Cards, si tratta di un tentativo miseramente fallito. Infatti, nonostante la bravura di Sutherland, questa produzione sfiora più volte il ridicolo.