Intervista a Luca Ferri e Andrea Miele per il corto Sì a Venezia 77
Tra i cortometraggi in concorso nella sezione Orizzonti c’è stato anche Sì di Luca Ferri (di seguito LF). Lo abbiamo incontrato insieme al montatore Andrea Miele (di seguito AM). Ecco cosa ci hanno detto.
Film molto intimo, pessimista, con molti riferimenti letterari. In particolare, come tu stesso hai dichiarato, Ja di Thomas Bernhard, ma anche a Robert Walser. Partiamo proprio dal titolo Sì: una affermazione su una negazione, l’ultima negazione possibile. Quindi, per te, la speranza è assente?
LF: Sì, assolutamente. Nessuna speranza. È interessante, secondo me, partire dal fatto che anche il compositore delle musiche del film, Dario Agazzi, che fa un certo tipo di musica contemporanea di ricerca, sia già arrivato con la sua composizione alla conclusione di chiusura.
I titoli delle due composizioni per il film, Congedo e Commiato, sono abbastanza emblematiche…
LF: Giusto. Quindi già questo ci dice molto sulla condizione che stiamo vivendo, un periodo storico profondamente difficile, non che gli altri non lo siano stati, ma a noi tocca questo…
Il tuo film non è di facile comprensione: come negli scritti di Walser apparentemente sembra molto semplice ma in realtà dietro nasconde un criptico e profondo significato. Inoltre, come lui traeva ispirazione letteraria dalla grafia, tu sembri ricavare ispirazione cinematografica dal formato delle immagini che usi: perché per costruire Sì hai scelto di usare quelle dell’Archivio Prelinger?
LF: In primis avevo bisogno di un dispositivo che non mettesse in soggezione un linguaggio rispetto ad un altro. Una cosa che è successa spesso nei miei precedenti lavori, è che di solito la musica è assoggettata all’immagine e il senso viene ribaltato. Questo film, invece, è essenzialmente un lavoro di grande equilibrio dove abbiamo tre forme di linguaggio che stanno equidistanti e, soprattutto, che non si prevaricano e quindi rimangono ognuna slegata ed indipendente ma tutte con una precisa connotazione e una propria dignità autonoma. Il film non è altro che un grandissimo contenitore, in realtà anche la mia visione di cinema, dove far confluire altre forme d’interesse o di esperienza umana, in questo caso la letteratura, la musica, l’immagine in movimento e la fotografia.
Proprio come Walser che apprezzava le varie forme d’arte ed espressione. E sempre lui era molto attento all’ambientalismo. Viste le terribili immagini di caccia agli orsi presenti nel film, questo vale anche per te?
LF: Cerco di fare delle scelte etiche, l’alimentazione o la macchina a metano, e cerco di gravare ecologicamente il meno possibile, ma all’interno del mio cinema non c’è una chiara difesa dell’ambiente, cosa abbastanza normale per una persona dotata di buon senso, e non dichiaro la cattiveria dell’uomo e la santificazione dell’animale, ma semplicemente, sono segni cinematografici.
All’inizio del film, quando descrivi l’evoluzione del mondo, a parte i busti in gesso di filosofi e grandi personaggi della storia come Churchill o Lincoln, gli unici segni lasciati dall’umanità sono dei ruderi architettonici: da questo punto di vista il suicidio che racconti contemporaneamente nella seconda metà dello schermo, può essere visto come il suicidio dell’intera specie umana?
LF: Non ho pretese di universalità: il testo sul suicidio è circonstanziato ad un ricordo e quelle immagini sono circonstanziate a quell’accadimento. Io penso sempre che per parlare di concetti universali bisogna dimenticare tutto ciò che è universale e concentrarsi sullo specifico. Quando lavori nel particolare inevitabilmente poi succede che qualcuno ci vede qualcosa che va al di là del singolo episodio del mio ricordo, e questo mi fa anche piacere perché l’universalità sta esattamente nel corpo, nella carne delle cose, nella precisa tracciabilità di un oggetto, di una architettura, di un segno di una vita.
Infatti non ho percepito il film come qualcosa fatto per il pubblico ma come qualcosa di intimo e personale che poi il pubblico adatta alla propria personalità.
LF: È proprio così. Penso spesso che i miei lavori abbiano bisogno di un pubblico che ci entri dentro con la testa al 100%. Mi è piaciuta molto anche la tua definizione di “apparentemente semplice”: il mio è un lavoro molto stratificato che non ti permette di approcciarti con disattenzione perché da una parte hai un testo che continua a fluire, dall’altro hai le immagini e un suono. Pretende un livello di attenzione molto alto.
Senso della vita e senso della morte…
LF: Sì, siamo su quelle latitudini. Ma aggiungerei anche il senso del fare, perché è fondamentale la motivazione che ti spinge a fare, che può essere anche il senso di fare cinema.
Nei tuoi film precedenti si vede il tuo amore per gli spazi chiusi, come i recinti. Tu ami circondarti come da mura…
LF: Le gabbie! Sono bellissime…
La gabbia dell’uomo in questo caso è il suo salotto: l’uomo fruisce l’intero universo attraverso uno schermo televisivo, un po’ come oggi con internet, ed evade da quella gabbia sognando. È così? È un’evasione?
LF: Il film chiude e noi non sappiamo se l’uomo si sveglia da questo sogno. Dove lui sia precipitato non è dato saperlo. E comunque la totale mancanza di volontà di essere espliciti e di portare il film come tramite per una riflessione esclusivamente privata e intima, è quello di una profonda, unica e irrappresentabile definizione, percezione. Quando un lavoro ti permette di avere una tua personale percezione, sviluppo, e non ti porta un messaggio univoco, chiaro, categorico, penso che siamo nella buona strada. Io diffido sempre del messaggio nitido, granitico. Questo film vuole dichiarare questo.
Infinite sfaccettature anche perché dipende sempre poi da chi lo guarda e non solo da chi lo fa.
LF: Esattamente. Bisogna fare dei lavori che non permettono questo fraintendimento, perché è un attimo arrivare con il messaggio politico, il messaggio ambientalista, il messaggio pessimistico o di salvezza. Non c’è messaggio.
Come hai dichiarato, questo film è il primo di cinque sull’assenza. Intesa nel senso che mi hai appena spiegato? O in quale senso?
LF: Anche! Ma saranno cinque assenze molto diverse tra loro. Ad esempio Andrea Miele, il montatore del film, sta già lavorando su diversi materiali in cui stiamo declinando e ragionando insieme. Ti posso anticipare che ci sarà un lavoro importante sulla figura di Carlo Scarpa (uno dei più importanti architetti del XX secolo). Quindi sarà un lavoro completamente diverso da Sì. Abbiamo anche un altro lavoro sulla figura in generale del divino: in questo caso abbiamo usato il Divino Otelma come possibile viatico per questo tipo di ragionamento. Ragioniamo su cosa sia l’assenza e su cosa sia la presenza.
Si inserisce il montatore Andrea Miele.
Andrea, quanto è stato difficile tradurre il pensiero di Luca montando il film?
AM: In realtà è stato molto facile perché io e Luca ci conosciamo da tanto tempo. Non è la prima volta che collaboriamo e con gli anni siamo entrati in sintonia, ci scambiamo opinioni e abbiamo gusti abbastanza simili su alcune cose. Quindi devo dire che da questo punto di vista è stato facile. Paradossalmente poi questo film lo abbiamo montato tutto a distanza attraverso Skype, visto che lo abbiamo fatto interamente durante il lockdown.
LF: Un altro aspetto di assenza, l’assenza fisica!
AM: Dopo che avevano chiuso tutto ho rivisto Luca a giugno, e questo ci ha un po’ aiutati ad entrare nel cuore del film. Infatti, non vedendoci forse ci siamo concentrati di più sul girato, oltre che sul senso di questa assenza e sull’entrare nel mood del film e di quello che voleva davvero raccontare. Perciò devo dire che questo è un progetto dove tutto è andato molto liscio, un processo molto naturale.
Sono Dario Agazzi, il compositore e critico cinematografico/musicale autore delle partiture “Congedo” e “Commiato” qui citate. M’è oscuro il motivo per cui in sede di pubblicazione non sia stata corretta l’espressione “persona ottuagenaria” a me riferita. Non ho infatti 80 anni (?!) bensì 34, essendo nato nel 1986. Dieci anni in meno del regista intervistato, nato nel 1976. Grazie, buon lavoro.
Gentile Dario Agazzi, ci scusiamo per l’errore, avvenuto in fase di trascrizione dell’intervista. Abbiamo quindi provveduto a rimuvere l’espressione “persona ottuagenaria” (se non lo vede subito, faccia prima un refresh del post con f5). Ci scusiamo ancora per il disguido.