Intervista a Flavia Mastrella e Antonio Rezza per il film Samp
Presentato nelle Giornate degli Autori nell’ambito della 77esima Mostra del Cinema di Venezia, Samp è il nuovo film della coppia Flavia Mastrella (di seguito FM) e Antonio Rezza (di seguito AR). Li abbiamo incontrati, ecco cosa ci hanno raccontato.
Film dissacrante il vostro. Un discorso sull’arte, sul valore delle tradizioni e di come queste vadano rivoluzionate per potersi evolvere. È così?
FM: Anche. Il discorso è aperto: ognuno ci può vedere quello che vuole. Noi abbiamo parlato dello stermino etnico e della prepotenza che ci stanno facendo subire, togliendoci i riferimenti per farci cambiare tecnologia.
Quindi anche se è un film che avete girato nell’arco di vent’anni possiamo considerarlo estremamente attuale?
FM: Certo. Già dal 1996 si sapeva che nel 2021 avremmo dovuto passare alla cultura digitale.
Una schiavitù tecnologica che appare come una libertà?
FM: No, direi un azzeramento. Finché non si arriva a zero non si può risalire e quindi non si può sapere quello che ci aspetta.
AR: Ti posso dire una cosa? A me della tutela degli altri, per esempio, non mi interessa; al di là della tutela di chi vede l’opera che deve essere mirata attraverso lo stupore e attraverso cose che di solito da soli non si riesce a raggiungere, io da questo momento in poi, visti i complimenti che ci sta facendo la critica e chi ha visto il film e visto che noi sappiamo il valore di quello che facciamo, che va anche al di là della possibile percezione, faccio solo l’interesse dell’opera. Non di noi due come autori, tant’è che sappiamo come ci comportiamo e non abbiamo bisogno di difenderci. Io voglio tutelare quest’opera e chiedo un’obiezione di coscienza a tutta la critica in caso non dovesse avere la giusta visibilità. Ripeto: nell’interesse dell’opera e non nel nostro interesse economico. La battuta “Ficcatevi i soldi in quel posto” di venti anni fa è valida anche adesso. Quindi ecco, ve li potete mettere lì i soldi, questo a me non interessa. A me interessa che un’opera del genere se viene così lodata, se viene così incensata, se viene ritenuta così fuori dagli schemi, accostandola all’arte e parlando di una sorta di rivoluzione del linguaggio che noi portiamo avanti, allora deve essere vista, nell’interesse di chi la guarda. Se ciò non accadrà chiediamo alla critica di obiettare con la coscienza e di non schierarsi dalla parte delle cose che vengono auspicate da questo sistema di diffusione. Altrimenti tutti questi complimenti a noi non servono.
Credo che abbiate ampiamente dimostrato di non necessitare di lusinghe.
AR: Come no! Nel cinema abbiamo bisogno della critica, che se non dovesse uscire il film dovrebbe protestare. Ma non credo che succederà, perché non conviene a nessuno in questo sistema percettivo. Vedremo quel che succederà.
FM: Sai, noi stiamo sempre in mezzo alle persone e loro vogliono vedere cose nuove. Non è vero che vogliono vedere sempre le stesse cose. Infatti non ci va nessuno al cinema, non ci va nessuno a teatro, perché vedono sempre le stesse cose da vent’anni!
A proposito di cose nuove, nel film l’uccisione dei genitori di Samp è metaforicamente una specie di passaggio edipico che permette il superamento della tradizione verso un linguaggio nuovo e verso una nuova aspettativa che poi può essere ampliata in un discorso molto più generale di relazione con il pubblico.
FM: Il lavoro non parte in funzione della relazione con il pubblico ma dalla taranta che è una danza liberatoria. Più che altro è un cerimoniale liberatorio. Ecco il film è un cerimoniale. Infatti ha una energia superiore che si sente.
Un’energia positiva.
FM: Si, positiva. Sperare certe cose è sicuramente positivo.
AR: Noi non lavoriamo in relazione a chi vedrà l’opera. Noi non lo chiamiamo neanche pubblico. Non prevediamo quel che succederà quando la si vede. Noi lavoriamo per noi stessi e ci sforziamo, da trentacinque anni, di far capire che l’arte che lavora e prevede il gusto di chi la vedrà è un’arte fatta in malafede, una presa per il culo per chi guarda. È pieno nell’espressione artistica, nella letteratura, nel cinema, nel teatro, di persone che fanno le cose prevedendo quel che accadrà nella mente di chi guarda. Noi pensiamo al nostro cervello, alla nostra percezione.
FM: Noi mettiamo in scena tutte le volte noi stessi. E’ chiaro che poi c’è una relazione con l’altro, perché se tu parli sinceramente della tua emozione l’altro lo avverte. Esistono delle leggi di comunicazione che non sono artificiali e che portano il discorso là dove ognuno vuole. Noi così agiamo. La morte della madre e della tradizione sono atteggiamenti metaforici.
Esattamente: distruggo per poter ricostruire…
FM: Sì, ma vedi è molto difficile dare una linea ad un discorso del genere, perché ognuno ci può rivedere sé stesso. O non rivedersi.
Sempre metaforicamente, lo zampognaro è una mediazione tra vecchio e nuovo?
FM: Questa è la cosa più facile. La zampogna non è realistica, è metaforica.
Ma perché questo zampognaro, registicamente, non lo avete ammazzato subito?
AR: Perché la struttura era già stata fatta. Vedi, la musica è l’arte più internazionale che esista perché può essere portata ovunque senza mediazione. Quindi questa passione di Samp per la musica è in contraddizione con il suo essere conservatore. Lui stravede per l’arte ma poi si chiude come un’aspirapolvere, cioè con un personaggio assurdo, contraddittorio. Per questo lo adoro, perché non avevo capito fino a pochi giorni fa quello che era, perché vedere un film con un pubblico ti fa amare ancora di più quello che sei stato. L’ho visto con occhi diversi. Per me Samp è diventato il mio mito, proprio perché è così contraddittorio e non lo era in maniera tale prima della proiezione pubblica.
FM: Lui è l’arte, infatti muore e poi rinasce.
AR: Però rinasce come arte di merda visto che rinasce sotto forma di aspirapolvere!
FM: E tutto si immobilizza.
AR: Ma questo può anche sfuggire. Quello che rimane deve essere energia, deve essere il grande senso di libertà. Non è che noi vogliamo dire quello che dovete scrivere voi. Però bisognerebbe fare proprio delle colonne sulla libertà che noi ci concediamo, perché è un privilegio. Chi non conosce questa libidine non conosce l’arte, non conosce la bellezza delle proprie idee. Quindi possiamo dire che va bene pure così, ognuno faccia quello che vuole e noi facciamo ciò che vogliamo.
FM: Comunque c’è libertà di ripresa, c’è libertà di narrazione.
Nella narrazione si vede il contrasto con il denaro, la sceneggiatura e la tempistica.
AR: Ma quale produzione avrebbe accettato un modo così libero di lavorare? Chi non avrebbe pensato “questo non si capisce”, “questo non lo capiranno”? Chi non avrebbe dato del bifolco al pubblico quando il pubblico bifolco non è? Qui si parla di un linguaggio diverso. Noi siamo stranieri in casa nostra e non abbiamo scelto nemmeno la casa. Quindi non lo so. Da una parte c’è la felicità di essere diversi da un sistema che affonda e dall’altra, purtroppo, c’è la consapevolezza che da qui ormai, con la padronanza che abbiamo su ciò che facciamo, è troppo tardi per andare via. Ma da qui, chi inizia adesso, da qui deve andar via.
FM: Oppure deve lottare.
AR: La lotta non ha senso. Questo è il peggior posto per avere delle idee. Questa patria, con tutto il disprezzo verso la parola visto che non credo nel patriottismo, che all’origine forse è stata la più bella storia dell’arte e adesso è il posto peggiore dove avere idee autoreggenti.
Allora lasciate che vi ringrazi nuovamente per avermi donato la più grande libertà, quella di ridere.
FM: La risata lavora dentro perché sviluppa il senso critico. Ma poi domani son dolori.