Il sacrificio del cervo sacro: il capolavoro di Yorgos Lanthimos
Recensione di Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos, con Colin Farrell, Nicole Kidman e Barry Keoghan.
“Cause we got the fire and we gonna let it burn” (Perché abbiamo il fuoco e lo lasceremo bruciare). Così canta, in una delle scene più poetiche e sospese del film, la giovane e ingenua Kim (Raffey Cassidy) davanti all’imperturbabile Martin (Barry Keoghan), intonando con timidezza e innocenza la canzone pop Burn di Ellie Goulding. E Il sacrificio del cervo sacro di Yorgos Lanthimos si comporta allo stesso modo: è un fuoco che brucia lentamente, una miccia che comincia ad ardere silenziosa per poi diventare, in un climax di chirurgica e sfrontata suspense, un incendio impetuoso e inarrestabile. Perché nell’ultimo film del regista greco brucia la fiamma dell’arte (non solo della settima arte!), capace di mettere a fuoco un cristallino capolavoro moderno, senza dubbio l’opera più compiuta e dannatamente solida di Lanthimos.
Il sacrificio del cervo sacro è un film inquietante, disturbante, a pelle e sottopelle, sin dalla primissima sequenza, con quell’operazione a cuore aperto che pulsa e batte sul nostro sguardo con violenza, senza preavviso, senza requie. Un’opera che, per molte inquadrature e per l’atmosfera che crea, richiama alla mente Shining e Eyes Wide Shut di Kubrick. Il richiamo è forte, ma sia chiaro: Il sacrificio del cervo sacro non imita nessun film precedente, né nello stile né nei contenuti narrativi. Lanthimos non omaggia né cita. Il suo occhio è unico. Ma innegabilmente smuove qualcosa nella memoria visiva di uno spettatore appassionato. Così come lo stridore delle musiche ricorda quelle ricorrenti nei film di Hitchcock (si pensa a Psycho, ma non solo). Lanthimos procede rigoroso e cinico, ricorrendo a molti piani sequenza e ad una aberrante profondità di campo, spesso restando a distanza dai suoi personaggi (ma non prendendone le distanze, si percepisce che li ama morbosamente uno ad uno!) con campi lunghi o riprese dall’alto come fossero soggettive di un’entità invisibile (forse il Fato?) che tutto vede e tutto segue. Movimenti di macchina e prospettive geometriche, panoramiche che tutto ci mostrano e allo stesso tempo nascondono, fino a negarci la benché minima tranquillità dell’anima. Perché Il sacrificio del cervo sacro è uno di quei thriller psicologici che vuole e sa tenere lo spettatore nella stessa condizione dei personaggi che mette in scena. Un film che ci secca la bocca, che ci intorpidisce le gambe, che ci fa mancare la terra sotto ai piedi proprio come accade ai figli di Steven (Colin Farrell).
Vincitore del premio per la Migliore Sceneggiatura al Festival di Cannes 2017, Il sacrificio del cervo sacro ha la grandezza di un mito greco, di un tragedia antica, interrogandoci con domande senza tempo intorno alla follia, alla famiglia, ai lati più oscuri del nostro Io. Lanthimos ammazza il suo cervo sacro, il suo vitello grasso, il suo agnello sacrificale, ovvero il film, portandolo sull’altare del sacrificio (il cinema) ogni qual volta si accende la luce (del proiettore ma non solo). E il rito si compie, e si ripete. E ogni volta suscita quel dilettevole terrore che solo il Cinema sa comporre ad arte.
Vedendo il film io ho avuto la netta impressione di un déjà vu, sia nella forma che nei contenuti, di un mix mal riuscito tra Teorema di Pasolini e Funny Games di Haneke…
Come ho scritto anche io, c’è una forma di percepito déjà vu, ma io sostengo che l’opera sia molto personale. Tu ci vedi Haneke e Pasolini, ma credo che chiunque possa vederci quello che vuole, tutto dipende dal “bagaglio” che lo spettatore ha e da cosa decide di “proiettarci” dentro nel momento in cui viene suggestionato da una certa immagine o sequenza o situazione narrativa. Non sono d’accordo sul mal riuscito, anzi credo sia ingiusto che tu dica così, temo tu ti sia fatto troppo influenzare dai “riferimenti” che hai citato. Credo invece che questo di Lanthimos sia senza ombra di dubbio un grande film.