Il più grande sogno di Michele Vannucci: recensione
E’ possibile cambiare il proprio destino? E’ possibile dare un nuovo inizio e una nuova direzione alla propria vita? E’ ciò che si e ci domanda Michele Vannucci nel suo film d’esordio, Il più grande sogno, presentato a Venezia 2016 nella sezione Orizzonti.
Tutto è cominciato con il cortometraggio Una Storia Normale, dove per «normalità» si intende la vita ai margini di Mirko Frezza, ex galeotto nato e vissuto a La Rustica, periferia est di Roma, dove le regole sono quelle della strada e la speranza non viene neanche presa in considerazione.
Il più grande sogno è il prolungamento e l’epilogo di quella storia. Mirko per amore della sua famiglia (che per lui include anche i membri variegati della sua borgata che lo eleggono presidente del comitato di quartiere) coltiva, proprio come quel campo di pomodori che da daltonico non riconosce e non mangia, il sogno di abbandonare gli impicci e cercare una rinascita.
In un percorso lungo quattro anni a stretto e continuo contatto col suo protagonista, Vannucci scava nell’intimo di quest’uomo per poi espandere la sua realtà personale inglobando prima la borgata e poi tutti gli spettatori.
Non è cosa semplice raccontare e far capire una così cruda realtà contemporanea. Vannucci, nonostante inevitabili sbavature narrative, lo fa con mano sorprendentemente mirata e sicura, raccontando in maniera semplice ma non facile, in grado di coinvolgere emotivamente il pubblico. Non è populista. Non è ricattatorio. Non nasconde ma anzi inquadra da vicino, aiutato dalla bella fotografia di Matteo Vieille che illumina i cieli romani che fanno specchio all’anima dei personaggi, la realtà degradata del suo protagonista sostenendola con punte di ironia, divertimento e anche tenerezza , atte a rendere il suo ritratto sofferto e credibile.
E Mirko ci appare per quello che è: un diamante grezzo. Un duro dal cuore buono che se cade può andare in mille pezzi ma che, malgrado tutto, mantiene la dignità e la lealtà di un suo codice d’onore. Non deve essere stato facile per lui, attore non professionista, presentarci i suoi demoni e ripercorrere i propri errori. La sua profonda umanità ci viene trasmessa dal suo mutevole sguardo: dolce quando è rivolto alla sue donne; fanciullesco quando scherza con l’amico Boccione, interpretato da un generoso Alessandro Borghi; ferreo quando s’impone alla sua gente; ma soprattutto dolorosamente consapevole, in quei lunghissimi tre minuti che, forse, avrebbero dovuto concludere il film. Un primo piano che pochi professionisti sarebbero stati in grado di reggere. Il più grande sogno è tutto in quello sguardo: accettare i propri limiti e i propri errori con sincerità senza piegarsi o rassegnarsi ad essi, ma credere sempre in se stessi e nelle proprie possibiltà.
scritto da Vanessa Forte.