Il ministro: i nuovi mostri di Giorgio Amato.
Metti una sera a cena un imprenditore in crisi, un ministro (in)corruttibile, una moglie vegetariana tendente alla dieta vegana, un cognato facile alle gaffe, una ballerina di burlesque cinese e una colf venezuelana. Cos’è, una barzelletta? No, è il nuovo riuscitissimo film di Giorgio Amato: Il ministro. Un titolo che fa subito tremare le gambe e i polsi.
Protagonista un imprenditore, Franco Lucci (Gianmarco Tognazzi), che si gioca il tutto per tutto in nome di un appalto da accaparrarsi. Il tavolo da gioco? Una tavola apparecchiata con goliardie post-pasto: o la va o la spacca. A remargli contro, a sorpresa, un po’ tutti: dalla moglie al cognato al ministro stesso. A suon di stoccate, freddure e frecciatine di bruciante cinismo, si procede verso un doppio colpo di scena finale dal gusto tragico-comico, quasi grottesco, ma vero più del vero.
Il regista dei buonissimi Circuito chiuso (2010) e Stalker (2013), rispettivamente un mockumentary con scaglie di horror e un film drammatico, cambia nuovamente genere e si cimenta con una black comedy che diverte, seduce e un po’ spaventa, proprio come il potere. Un invito a cena (con delitto?) si trasforma in un giro di schiaffi e pugnalate alle spalle, una giostra di nuovi mostri che innegabilmente, anche per via della tambureggiante colonna sonora di Eugenio Vicedomini, rimandano a quelli della grande commedia all’italiana. Caricature ed estremismi che, come nei film di Dino Risi, pongono lo spettatore di fronte ad uno specchio che, tramite la deformazione, ci mostra la cruda realtà che ci circonda.
“Ispirato a fatti probabilmente accaduti”. Con questo titolo, non a caso, si apre il film. E questo già fa sogghignare, ma anche incupire. Perché Giorgio Amato dichiara sin da subito i suoi intenti: farci male con la frusta della risata. Il risultato è assolutamente riuscito, colpisce basso, sotto la cintura, mostrandoci l’assoluto declino politico e morale dell’Italia. Perché questa manciata di personaggi allo sbaraglio e senza scrupoli è proprio questo che rappresenta: l’Italia, anzi l’Italietta come diceva un personaggio de Il caimano di Nanni Moretti. Un Paese in cui il pubblico si ordisce nel privato, a lume di candela e non sotto le luci della ribalta, dove festini e “cenette intime” sono all’ordine del giorno per pilotare una Nazione verso la rovina. E dove se Maometto (l’imprenditore) non va alla montagna (il ministro), la montagna va da Maometto, tanto c’è sempre da guadagnarci qualcosa voltando le spalle al lecito, alla legge, al popolo.
Il ministro, però, non parla solo di politica. Tra escort mancate e banconote sotto chiave, il film di Giorgio Amato è una fotografia nitida e bieca anche di altri temi “dominanti” nell’opinione pubblica di oggi. Tra questi, solo per citarne uno, il mondo vegano con tutti i suoi eccessi e tutte le sue storture.
Il ministro, inoltre, non solo è una commedia nerissima (genere difficile e poco praticato nel cinema italiano) che sa vestirsi di originalità e indipendenza da ispirazioni di kammerpiel francesi (spesso imbattibili nel genere), ma ha pure il coraggio di osare sul lato registico, usando (con successo) quasi ininterrottamente la macchina da presa a spalla. Il fine? Portarci nella casa dell’imprenditore come “imbucati” invisibili, facendo dell’instabilità fisica della mdp e della freddezza della fotografia le metafore della morale zoppa e senza redenzione che abita i personaggi.
E ancora, dietro questo stile asciutto che spiazza l’assuefatto spettatore da commediole, Giorgio Amato inserisce nudi, baci saffici e scene “da bollino rosso” che strizzano un occhio a Welcome to New York di Abel Ferrara e The Wolf of Wall Strett di Martin Scorsese, film che pur non essendo commedie, guarda caso, parlano anch’essi di (scalate al) potere, vizi, sesso, corruzione, droga.
Bravi tutti gli attori, comprimari perfettamente dosati in toni e umori. Gianmarco Tognazzi ritrova la vis comica delle commedie girate con Alessandro Gassmann (Teste di cocco, Facciamo Fiesta). Fortunato Cerlino, nei panni di un ministro dagli occhi di cristallo e dall’etica (in)frangibile, sprizza mellifluo e spassoso cinismo. Convincono anche tutti gli altri, da un preciso e torbido Edoardo Pesce al sensuale tris di donne Alessia Barela-Jun Ichikawa-Ira Fronten.
Insomma, Il ministro è una commedia bella e cattiva, come una femme fatale, capace di resistere al tempo, poiché, visti i temi trattati, è attuale oggi come vent’anni fa o tra dieci anni. Un film che, come passa anche dalla locandina, ci lascia in mutande, nudi come vermi.