House of Cards: recensione quarta stagione
Come sapete, non sono un grande appassionato di serie tv. E mi riprometto di recuperare. Nell’attesa, però, ospito con piacere questo guest post scritto da un caro amico e redattore per il sito Action Parallèle, Fabio Raffo. Senza spoiler, un’interessante analisi della quarta stagione di House of Cards e di come si sia sviluppata dagli esordi fino ad oggi. Buona lettura!
Nella quarta stagione di House of Cards, l’avventura degli Underwood – interpretati dallo straordinario, magistrale (e potremmo continuare con i superlativi) duo Kevin Spacey-Robin Wright – procede nella costruzione di intrighi politici appassionanti quanto ideologicamente nauseanti. Per coloro che ancora non conoscessero questa serie evento (recuperate il ritardo!), House of Cards è il remake di una miniserie britannica, di cui riprende parzialmente ed espande a dismisura la trama: quattro stagioni da tredici episodi l’una, una quinta in produzione e chissà se sarà l’ultima. Il tema è la politica e il titolo propone come metafora quella di un castello di carte che viene costruito e che presto o tardi crollerà. Il castello si riferisce al Partito Democratico americano, le cui radici vengono squassate dalla personale salita al potere di Frank Underwood. Un primo elemento (di sorpresa) a favore della serie è la capacità di rinnovare i suoi punti d’interesse e mantenere alta l’attenzione, nonostante il tema scelto sia appunto qualcosa che normalmente appassiona poco il pubblico medio.
Certo, alcuni meccanismi cominciano a sembrare scontati e ripetitivi: Frank si trova di fronte ad un avversario o ad una situazione politica apparentemente impossibile da sbrogliare, ma ci riesce grazie al suo ingegno e alla sua spregiudicatezza. Le difficoltà si trasformano in vantaggi, i nemici in burattini da utilizzare e Frank può continuare a fare il bello e il cattivo tempo (almeno fino ad ora). Nonostante questo, il ritmo rapido degli eventi e il miscuglio di politica e genere thriller, con l’aggiunta di riferimenti neanche troppo nascosti alle grandi storie shakespeariane, continua a mantenere un certo fascino.
Per parlare della storia – senza spoiler – gli sceneggiatori sono riusciti ad evitare la trappola della seconda stagione, ovvero spostarsi troppo sul “politichese”, col rischio di perdere una fetta di pubblico. E hanno avuto l’intelligenza di approfondire ciò che già era un punto di forza e novità nella terza stagione: il potere dà alla testa degli Underwoord, trasformandoli in veri e propri mostri. Il cinismo simpatico e accattivante di Frank della prima e in parte della seconda stagione sparisce ora completamente. Nella terza stagione diventa raccapricciante, e sua moglie idem nella quarta. Il disgusto per le loro azioni prende talmente il sopravvento che, pur essendo i protagonisti, non vediamo l’ora che qualcuno faccia crollare il loro terrificante castello di carte. Ma si tratta di un disgusto che dà da pensare, che ci mostra i meccanismi della politica, che ci fa intuire quanto poco sia o possa essere “democratico” il nostro sistema, e quello americano.
Nella quarta stagione un altro elemento strategico e brillante della sceneggiatura è l’inserimento di “spunti” di attualità, col fine di portarci a riflettere: come la corsa al petrolio, il terrorismo, la crisi economica, la minaccia alla privacy della gente comune e informazioni sensibili possono essere utilizzate per fini elettorali? Tutto ciò fornisce nuova linfa alla serie, malgrado qualche ridondanza e qualche faglia di scrittura (alcuni sotto-intrighi iniziati e poi mai finiti). Se House of Cards ha saputo, fino ad oggi, raccontarci e appassionarci prima alla presa e poi al mantenimento del potere degli Underwood, resta quindi ancora spazio per sorprenderci con il racconto del crollo delle carte. Oppure consegnarci ulteriormente al disgusto, con il consolidamento definitivo del potere della temibile coppia.