Hannah di Andrea Pallaoro: recensione
Avete mai posseduto un bicchiere di vetro infrangibile? Cadono e ricadono ma, pur con qualche graffio, resistono. Fino a quando non sono colpiti con la giusta angolazione. Allora letteralmente esplodono. Hannah di Andrea Pallaoro è un bicchiere di vetro infrangibile.
Dopo aver esordito con Medeas proprio in laguna, nella sezione Orizzonti 2013, Andrea Pallaoro è tornato con Hannah, il secondo tassello della sua trilogia sul mondo femminile, in concorso a Venezia 74.
Hannah (Charlotte Rampling) dopo aver accompagnato in carcere il marito, colpevole di un reato terribile, e aver perso sicurezza economica e sociale, cerca di portare avanti la sua vita sui binari di un rigido controllo delle proprie emozioni. Ma il rifiuto da parte del figlio di farla partecipare al compleanno del nipote è il colpo di grazia che la manderà completamente in crisi, frantumando del tutto la sua identità e facendola sentire un rifiuto difficile da smaltire, come la balena che nel frattempo si è spiaggiata sulle coste della Normandia.
Diciamolo subito: tutto il film si regge sulla magistrale e maestosa prova attoriale della protagonista. Charlotte Rampling, infatti, si offre interamente al regista e agli spettatori spogliandosi, non solo metaforicamente, di se stessa per incarnare, nei gesti dominati, negli sguardi sofferti ma orgogliosamente dignitosi e austeri, negli urli silenziosi e contenuti, tutta l’afflizione, la collera, l’isolamento e la voglia di morte di una donna abbandonata a sé e oramai senza prospettive. Le scene col cane, quella della piscina, fino al disperato pianto nei bagni della metropolitana, sono via via sempre più strazianti.
Sebbene si noti l’amore del regista verso questo personaggio, il film manca di una struttura solida. Pallaoro si dimostra pavido, vacuo, compiaciuto e persino pretenzioso nelle sue scelte registiche. Tralascia praticamente del tutto il mondo e gli avvenimenti che circondano Hannah, mettendo l’intero peso del film sulle spalle della sua protagonista. Gli estenuanti silenzi, la sceneggiatura ritrosa, tutta basata su una somma di eventi e non sull’evoluzione della storia, le metafore modeste e i tempi lunghissimi rendono Hannah pesante come un panzer. Che si trascina per un’ora e mezza, senza riuscire a trainare con sé lo spettatore che rimane freddo e poco empatico nei confronti della storia, che, tra l’altro, si conclude con un finale senza svolta che lascia alquanto insoddisfatti.