Godless: nessun Dio ma tanto cuore per il grande west(ern) di Frank Scott

godless roy goodeGodless, la serie tv statunitense prodotta e distribuita da Netflix, scritta e diretta da Scott Frank (sceneggiatore di film di successo come Minority Report e Out of Sight), con Steven Soderbergh tra i produttori esecutivi, non è certo la prima series ambientata nel lontano e sempre amatissimo West, quello americano. Ricordiamo, tra le altre, Deadwood già dieci anni fa, oppure, più di recente, l’acclamata Hatfields and McCoys con Kevin Costner, vincitrice di ben cinque Emmy Awards e un Golden Globe.

Godless, quindi, non essendo né la prima né l’ultima, porta con sé tutti i rischi dell’emulazione, del già visto, del vecchio west(ern) che rimane tale. Rischi che schiva alla grande sin dall’episodio pilota che ci prende al lazo con furbizia e spettacolarità, tenendoci buoni e fedeli, episodio dopo episodio, fino al settimo finale, assolutamente un piccolo capolavoro.

Godless, senza Dio. Un titolo che dice già molto sul tono “secco” e “terreno” dell’intera serie. Ma ci sono tante donne, una città di donne, la polverosa e disgraziata La Belle, nel New Mexico, realmente esistita. E una manciata di uomini, tra buoni e cattivi, bad good boys e good bad boys, che lasciano poco spazio a caratterizzazioni stereotipate. C’è uno sceriffo sulla via della cecità, un giovanissimo vice-sceriffo dalla pistola lestissima, un fuorilegge che ha del buono dentro e una banda di assassini che invece di buono non hanno nulla, capitanati da un pastore predicatore così spietato e presuntuoso da sapere (o almeno così crede) quando e come morirà. E poi un piccolo indiano, un indiano (forse) fantasma e tanti altri personaggi ciascuno col suo perché. E questo già è un grosso punto a favore di un “genere” che sposta il suo mirino dal “carattere fisso” al “carattere psicologicamente definito”, tanto da riuscire nel farci affezionare ad ogni singolo character, anche ai più crudeli, perfino a Frank Griffin.

Godless serie tv netflixQuello che vediamo solcato e cavalcato in Godless è il vecchio West americano, quello delle miniere da spolpare, della ferrovia da costruire, delle diligenze che attraversano la prateria, della main road deserta dove la città sta a guardare dal porticato di una locanda. Sono il vero West e il vero western americano, ma con quell’aggiornamento (un po’ crepuscolare e un po’ contemporaneo) dell’estetica che già avevamo visto “introdotta” in due pietre miliari del post-western: Gli spietati (1992) di Clint Eastwood e Open Range – Terra di confine (2003) di Kevin Costner. I fantasmi di John Wayne, James Stewart, ombre rosse e penne bianche, ci sono, sono diluiti nell’aria di un immaginario che non può farne a meno, pena la sua snaturalizzazione. Ci sono echi anche di Leone e Corbucci, ma lievissimi, quasi impercettibili, proprio perché altra cosa rispetto a “questo” West. Certo, l’iniziale mutismo per una ferita alla gola del protagonista Roy Goode (Jack O’Connell) ricorda quello di Trintignant ne Il Grande Silenzio (in parte citato in alcune fuggitive scene finali dell’ultimo episodio) di Corbucci, così come la sua passione per non-eroi menomati è incarnata da quel Frank Griffin (Jeff Daniels) privo di un braccio. Di Sergio Leone c’è pochissimo, lampante è solo quello che pare essere l’unico primissimo piano della serie, dedicato nell’ultimo episodio proprio allo sguardo fisso in mdp di Jack O’Connell. Ma non ci sono cappelli volanti, grida sguaiate, volti segnati da brucianti smorfie. C’è però un richiamo a Sam Peckinpah, ai ralenti de Il mucchio selvaggio (1969) nelle scene di carneficina del primo e ultimo episodio, perfettamente circolari, e in questo assolutamente magici, da veri brividi sulla pelle. Ma tutto è come pulviscolo misto alla polvere del West, c’è ma non si riesce mai ad afferrare. Godless è una magnifica creatura a se stante, che ha innegabilmente, come è giusto e naturale che sia, dei maestri e dei riferimenti, ma sa scioglierli con magistrale alchimia, fino a rendersi del tutto autonoma e originale pressoché in ogni aspetto artistico e stilistico.

Godless è una serie tv che profuma di film, di quelle che vorremmo davvero godere nella “opulenza” di un grande schermo. Una series dove ogni episodio è un tassello necessario. Anche quelli che paiono più descrittivi (si pensi alla lunga sequenza in cui Roy Goode insegna al ragazzetto indiano come domare il cavallo) forgiano un’atmosfera che, nel farsi poetica, si sta facendo anche ricca di tensione, di suspense che la regia sa magistralmente estinguere in chiusura di ogni episodio, senza lasciarci mai insoddisfatti o affamati. Di pallottole o di emozioni, comunque sia per lo spettatore il bottino è sempre ghiotto.

Bellissimo l’episodio finale, che va veramente a galoppo, quasi a briglia sciolta rispetto agli altri, ma senza perdere la minima aderenza al robusto filo della coerenza narrativa pazientemente orchestrata. Memorabile la sparatoria “in verticale” all’Hotel di La Belle. Un colpo allo stomaco anche il breve ma intenso duello finale, un “classico” che Godless si gioca una sola volta e nel migliore dei modi.

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