Georgetown: l’anonimo esordio alla regia di Christoph Waltz

Recensione del film Georgetown di Christoph Waltz.

georgetown filmFumoso come i toni grigi, slavati, sbiaditi che avvolgono tutto il film, Georgetown, esordio alla regia di Christoph Waltz, è un film sterile, che, pur tenendoci in bilico su un blando filo dell’attenzione, non riesce mai a coinvolgerci davvero.

Non è un thriller, non è una commedia, non è tantomeno una dramedy degli equivoci e degli inganni. Waltz cerca di adattare il proprio ego istrionico ad una storia che ha letteralmente dell’incredibile. Una storia che, come dichiara la didascalia iniziale, non vuole pretendere di essere vera pur ispirandosi a fatti realmente accaduti. Richiama infatti alla vicenda di Ulrich Mott, impostore e millantatore di professione, raccontata nell’articolo del New York Times Il peggior matrimonio di Georgetown. La vicenda si presta alla trasposizione cinematografica, ma Waltz, pur abbagliato dal suo potenziale, non sa da che parte rifarsi e smarrisce fin troppo presto la strada per tornare a casa.

A poco serve il procedere per capitoli, modus operandi certamente ereditato dall’amico Quentin Tarantino, per rilanciare una vicenda piatta, priva di mordente, sia dal punto di vista narrativo che registico.
Georgetown è un’opera dalle intenzioni fallaci e fallite. Anche dietro la macchina da presa, l’attore e regista ci prova a metterci della personalità, ricorrendo ad esempio a vari girovaghi piani sequenza in interni che però non hanno alcuna ragion d’essere. Ecco, un po’ tutto in questo film non ha né capo né coda. Certo, il film si fa vedere, e tutto sommato riesce anche a non abbandonarci alla noia, però non spicca mai il volo, non compie mai il salto di qualità, non getta mai il cuore oltre l’ostacolo. In fin dei conti, un esordio a sessant’anni suonati non aveva nulla da perdere e da una personalità forte come quella di Waltz ci si aspettava qualcosa di più incisivo.
Invece no, Georgetown si chiude a riccio in un’indole introversa, paurosa, un po’ da misantropo e un po’ da ipocondriaco, che pur di non farsi male, preferisce restare a guardare. Quando quelli che dovrebbero stare a guardare siamo noi, non il regista.

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