Il Muccino furioso. In difesa dello snobbato dai David di Donatello
Dico la mia sul “caso Gabriele Muccino”, escluso dai David di Donatello 2021.
Verde d’invidia o di rabbia? La seconda, senza dubbio. E a ragione, per di più.
Lo dico subito: non sono né un sostenitore né un detrattore di Gabriele Muccino, né un fan né un hater. Solo uno che va al cinema. Muccino può piacere o meno, de gustibus. Ma l’esclusione dalle cinquine forti dei prossimi David di Donatello è un’ingiustizia bella e buona. E forse ogni tanto dovremmo ricordarci che stiamo parlando di colui che, esattamente vent’anni fa, con L’ultimo bacio ha dato una scossa al cinema italiano all’alba degli anni Duemila.
“Questa ennesima volta (è dal 2003 che snobbate il mio lavoro), l’avete fatta grossa. A perdere non sono io, ma la vostra credibilità” scrive nel primo tweet infuocato, una vera dichiarazione di guerra ai giurati dei David di Donatello. Come sparare con un bazooka ad una zanzara.
Il 2003 è l’anno del suo capolavoro, Ricordati di me, inspiegabilmente snobbato al tempo. Eppure, vi invito a rivederlo, travolge oggi come ieri, come un fiume in piena dietro l’angolo. L’Accademia dei David di Donatello l’ha premiato nel 2001 come miglior regista per L’ultimo bacio, poi gli ha dato nel 2008 un curioso David Speciale per i suoi successi in terra straniera (nemo profeta in patria) e poi per A casa tutti bene ha strappato a furor di popolo nel 2019 il David dello Spettatore, ossia il premio del pubblico pagante, quello che si mette le mani in tasca e tira fuori quei benedetti 8 euro per comprarsi il biglietto. Per il resto, niente, zero, nisba.
Eppure, diciamoci la verità: Gli anni più belli è bello. Anzi dirò di più, secondo me è il suo film più riuscito dopo Ricordati di me. Ecco, a non ricordarsi, mai, di lui, è l’accademia dei premi Oscar italiani. Mi direte: Gli anni più belli per molti versi è un calco di C’eravamo tanto amati di Ettore Scola. E io vi dico: è vero. Ma è un omaggio voluto, urlato, lapalissiano. E ciò non toglie spessore né intacca la solidità, il valore, il romanticismo, il cinismo, il disincanto, la fotografia del nostro paese dai favolosi anni Ottanta a oggi (una fase storica non molto trattata, su un così lungo arco temporale, dal cinema nostrano). Ora io non vorrei scomodare i santi in paradiso, ma ridimensioniamo il valore di Le iene di Tarantino per il fatto che, soprattutto nel finale, è una copia esatta di City on Fire di Ringo Lam? (il film lo trovate coi sottotitoli italiani su youtube, guardare per credere). La risposta è no. Le iene è un grande film, anche se Tarantino fu accusato di plagio. E rispose alle insinuazioni con una frase diventata ormai proverbiale: “I bravi artisti copiano, i grandi rubano”. Di esempi e paragoni se ne potrebbero fare altri. Ma non voglio andare off topic.
Certo i modi di Gabriele Muccino non sono stati dei più galanti, diciamo che non l’ha toccata proprio pianissimo. Ma chi si arrabbia sfoderando un sorriso? Chi ne è capace, scagli la prima pietra. In Lacci di Daniele Luchetti ricordo uno scambio di battute in cui Lo Cascio, riferendosi ad un altro personaggio, dice: “Ha un modo antipatico di discutere”. E il suo interlocutore gli risponde: “Beh è difficile discutere in modo simpatico”. Ecco, Muccino ha preso un bel ceffone e non può porgere l’altra guancia mostrando trentadue denti. Ha tirato fuori un film importante, uno spaccato incisivo e nitido dell’Italia degli ultimi trent’anni, eppure, agli occhi dei David, è come se avesse partorito un cine-panettone.
Ovvio, poi gli è scappata la mano, come uno che in mezzo ad una rissa si mette a menare più forte perché ci prende gusto. Come diceva il saggio: quando si è in ballo, si balla. Ecco quindi che l’affondo ai fratelli D’Innocenzo se lo poteva risparmiare. Questo il tweet incriminato: “Sto provando a guardare da stamattina Favolacce. Non lo sono ancora riuscito a finire. Sarò poco intelligente o cinefilo per comprenderne la grandezza?”. Parole pesanti, stonate, ma la rabbia di Gabriele Muccino è cocente e spara a zero. Chi c’è, c’è e chi non c’è…
“Bisogna saper perdere” diranno i benpensanti imbellettati. Ma noi italiani siamo una frana in questo. Non siamo sportivi. E in tempi recenti un caso eclatante è stata Rai Cinema che, tramite Paolo Del Brocco, a conclusione dell’ultimo Festival di Venezia, ha detto che Miss Marx di Susanna Nicchiarelli, Notturno di Gianfranco Rosi e Le Sorelle Macaluso di Emma Dante, a secco in quanto a premi ricevuti, non erano “stati considerati come forse meritavano”. E non a caso i David di Donatello sono corsi ai ripari, risarcendoli con svariate nomination. Insomma, tutto il mondo è paese quando si tratta di battere i piedi, frignare, minacciare di bucare il pallone. Ma ben venga, siamo umani.
Muccino, dalla sua, ha il coraggio cristallino di dire come la pensa, cosciente di avere e di farsi dei nemici. Eppure nel cinema italiano una volta le cose ci si dicevano in faccia. Ricordate le meravigliose discussioni televisive tra Monicelli e Moretti? È storia del cinema e della tv italiana. Pane al pane, col coltello fra i denti. Oggi nessuno lo fa più, trincerati dietro un politically correct che non giova a nessuno, in primis ad uno spettatore troppo spesso priv(at)o di spirito critico, della capacità di farsi un parere e decidere da che parte stare. Ecco, so che il mio non è un parere popolare, ma pur coi suoi difetti, io, almeno stavolta, sto con Gabriele Muccino.