Frozen: la seggiovia della paura
Tre amici, un week end sulla neve, una seggiovia che si blocca improvvisamente. All’apparenza tre ingredienti classici per un perfetto B-movie con attori pessimi e (dis)avventure al limite del “già visto”. All’apparenza, ripeto. Perché Frozen di Adam Green è una piccola grande sorpresa. Giunti infatti ai titoli di coda ci fa sospirare (o forse tirare un bel sospiro di sollievo) e pronunciare la fatidica frase: “Mi aspettavo di peggio!”.
Il cinema, nel corso dei decenni, ci ha insegnato ad avere paura di qualsiasi cosa: squali in primis (ammesso che si debba imparare a temerli), aerei, treni, squilli del telefono, toc toc alla porta, sogni, ecc. In questo calderone ora, grazie a questa pellicola, c’è pure la seggiovia, con tanto di lupi pronti a sbucare dalle fronde del bosco.
Pur partendo in sordina (pensiamo subito “ecco le solite tre capre dilettanti del più abituale filmettino americano girato per battere cassa facilmente”), l’intensità cresce con fare rossiniano e i sentimenti passano realisticamente dall’illuso e positivista “Dai Joe, ce la puoi fare” al disperato ed esigente “Joe ti prego, faccela!”.
Frozen non è quindi il solito thrilleraccio da quattro soldi con inserimenti horror. Ha qualcosa in più. Innanzitutto una ambientazione assai circoscritta: uno stretto e lungo sedile ferroso sospeso nel vuoto e nel freddo. Una soluzione che ricorda la cassa da morto di Buried di Rodrigo Cortés. In entrambi i casi i registi dimostrano di possedere abilità dietro la mdp, creando una varietas di inquadrature atte a non far appisolare lo spettatore. Nel caso di Frozen, particolarmente efficaci sono i dettagli sulle cigolanti carrucole e sui robusti e taglienti fili che reggono l’impianto sciistico. Lo stridente scricchiolio delle porte della più classica casa di campagna è traslato sulle piste innevate. Ovviamente, di fronte ad un film dove il rosso del sangue tinge il candore della neve fresca, la nostra mente non può non correre al non plus ultra di Alive – I sopravvissuti, capolavoro del 1993 di Frank Marshall.
Questi buoni elementi di terrore non sarebbero però compiuti senza altre due peculiarità: la prima è la presenza di mani scavate dal sangue e dal taglio dei gelidi fili della seggiovia, di visi inariditi e crettati dallo sferzare del vento, di tibie e peroni simpaticamente e morbosamente en plain air. La seconda è la buona prova attoriale del trio dei protagonisti: Kevin Zegers (applaudito per la performance in Transamerica) dimostra di avere un futuro in questi (sotto)generi americani rivolti ad un pubblico particolarmente targettizzato; il biondo e glaciale Shawn Ashmore, dopo aver vestito i panni dell’Uomo Ghiaccio in X-Men, dà prova di poter sopravvivere anche al di fuori del fantasy; Emma Bell conduce il film con polso fermo (e mano insanguinata) verso un lieto fine non convenzionale, con tanto di sfatamento dell’abusata e finto-tranquillizzante battuta “Andrà tutto bene!”.
Insomma, il film che non ti aspetti. Certamente non entrerà nella storia del cinema, ma un posticino come piccolo cult nel genere se lo è ritagliato con merito.