Fai bei sogni: Bellocchio e i suoi fantasmi

fai bei sogni filmC’è una strana e tragica affinità elettiva che lega Marco Bellocchio e Massimo Gramellini, l’autore dell’omonimo libro da cui è tratto Fai bei sogni: la morte di un genitore in tenera età. All’età di nove anni Gramellini perde la madre, all’età di diciassette Bellocchio perde il padre. Deve essere stato anche questo triste e doloroso sentimento ad aver stretto l’uno all’altro, cuore e cuore, i due autori in quello che è il film che segna il grande ritorno di Bellocchio al grande cinema, un cinema di sentimento e sconvolgimento.

Buongiorno, notte, Bella addormentata, Fai bei sogni. Il cinema di Bellocchio è un cinema di sonni, sogni, dormienti, morti non morti. È un cinema di fantasmi, anime che continuano a vagare e camminare nel mondo, tormentando e accarezzando i vivi. Una componente, ora freudiana ora cattolica, che abbraccia gran parte dei suoi film sin dal fulminante e fulgorante esordio, I pugni in tasca (in cui un giovane, oppresso dall’educazione borghese dei genitori), fa fuori l’intera famiglia.
La famiglia, l’essere figli e l’essere genitori, il conformismo, l’educazione cattolica. Costanti che hanno segnato tutto il suo cinema, da Nel nome del padre a L’ora di religione a Il regista di matrimoni. Ecco, Fai bei sogni sebbene con un tocco più intimo e umano, ma non per questo divergente, è parte di un tutto organico, non staccando i piedi dalla precedente filmografia di Bellocchio. «Il “se” è il marchio dei falliti, in questa vita si diventa grandi “nonostante”» afferma il personaggio di Roberto Herlitzka. Una frase che vale per tutti, per tutti noi, ma in particolare per Marco Bellocchio e tutto il suo cinema, un cinema contro, sempre contro, un cinema controcorrente e “nonostante”, sempre in direzione ostinata e contraria.

Dopo l’indeciso Bella addormentata del 2012 e lo scialbo (per non dire inutile) Sangue del mio sangue del 2015, suona inaspettato questo bel ritorno di Bellocchio. Un ritorno meno ribelle del solito ma non per questo disciplinato, il ritorno di un regista invecchiato che ha sì “perso” il rigore militante e lo smalto radicale di un tempo riservato ad un pubblico elitario di esigenti, ma allo stesso tempo lo ha rivolto (senza stravolgerlo) ad un pubblico più ampio. Un pubblico (sempre) desideroso di andare al cinema per soffrire (e purificarsi) ancora un po’ della vita reale, cruda e crudele, talvolta ingiusta e vigliacca.

Fai bei sogni, se non fosse per quella troppo lunga sequenza a Sarajevo, sfiorerebbe una compattezza sferica palpabile, la solidità di un film ben scritto prima che ben diretto e ben recitato. Un film che tira i propri fili e le proprie fila, sapendo rilegare il tutto in una danza sguaiata, in un ricordo che torna, in una canzone di risuona, in un tuffo dall’alto che (non) fa male, in oggetti (l’anello, il giornale, ecc.) che fermano il tempo.

Fai bei sogni commuove, e lo fa sin dall’inizio. Fai bei sogni coinvolge, e anche questo lo fa sin dall’inizio. Poi perde qualcosa in alcuni frangenti, ma sa ritirarsi su. Il risultato è un film che procede senza “se” ma “nonostante” alcune incertezze certamente perdonabili. Un film che, inoltre, sa “citare” (non a caso) proprio Buongiorno, notte, sia in alcune prospettive domestiche (soprattutto nel finale la casa sembra addirittura la stessa!), sia nei ricorrenti inserimenti di “film nel film”. Splendida la sequenza di chiusura, di quelle che sottolineano la lucidità di un grande regista, che pazientando qualche secondo in più sa tramutare una situazione che ha del drammatico in un’altra che ci dà sollievo prima che le luci in sala si riaccendano.

Bravissimi, per non dire prodigiosi, i due giovanissimi interpreti di Massimo da bambino e da ragazzo, Nicolò Cabras e Dario Dal Pero. Bravi anche tutti gli altri, a partire da Valerio Mastandrea. Pur arrivando solo nella seconda parte di film, colpisce forte Bérénice Bejo.

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