È stata la mano di Dio: un nuovo (capolavoro di) Paolo Sorrentino
Recensione del film È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino.
Ha tutta l’aria d’essere un nuovo inizio, o forse un secondo tempo, quello inaugurato da È stata la mano di Dio nella filmografia di Paolo Sorrentino, che stavolta cede alla dolcezza, all’amarcord e anche alla risata. Un film meno filosofico ed ellittico rispetto ai precedenti, più introverso e lineare, più coeso e caldo, più vibrante di vita e meno disincantato.
È stata la mano di Dio romanza parte della biografia del regista partenopeo, che ci regala un’opera di grande bellezza, un inno alla vita, all’amore, alla famiglia, alle relazioni, alla seduzione, all’eros, ma anche a quei credi e credenze che, sconfinando nella religione come nel calcio, possono salvarci letteralmente la vita.
È stata la mano di Dio, se da un lato è un Nuovo Cinema Sorrentino, The New Paul potremmo dire parafrasando la serie sul papa ribelle Lenny Belardo, dall’altro è cinema sorrentiniano al 100%, seppur più tenue, morbido, docile, meno ostico e radicale nelle scelte visive e registiche. È un po’ l’altro lato della medaglia di Sorrentino, il suo lato più intimo, toccato nel vivo e che ci tocca nel vivo, a ciascuno di noi. Un film che si fa vicino alla nostra sensibilità di spettatori, trascinandoci nel mare aperto dei sentimenti, nello sbatacchiare agitato delle miriadi di onde emozionali che esistono tra le due boe di amore e dolore.
“La speranza è una trappola. Per raccontare una storia devi avere un dolore dentro” dice l’ingombrante e strabordante personaggio di Antonio Capuano all’imberbe e un po’ impacciato Fabietto, alter ego di Sorrentino. Il dolore c’è, scorre sottotraccia, ed esplode in un paio di sequenze di una potenza emotiva che mai abbiamo visto prima nel cinema di Sorrentino.
È stata la mano di Dio pullula e vibra di personaggi più buffi che bizzarri rispetto al passato, più strani nel senso bonario e simpatico del termine che borderline, omaggiando l’universo dell’amatissimo maestro e stella polare di sempre, Federico Fellini, citato e “udito” nel film. Il mood black dei film precedenti, però, cede il passo al colore, alla luce, in un abba(gl)io di ilarità e battute e grida (di gioia e di strazio) a cui non siamo abituati nel mo(n)dus filmico del regista napoletano. Il sogno, l’immaginazione, il ricordo, tutti temi cari al cineasta, ci sono anche qui, convivendo (e non surclassando) con una realtà che, come dice Fabietto, “non mi piace più, la realtà è scadente”. Ecco allora che arriva il cinema a colmare i vuoti di un mondo reale che, per sopravvivere, deve andare cibarsi nell’arte e dell’arte. E l’osmosi, anzi la simbiosi, tra questi due mondi, come due tempi diversi e distinti, trova equilibrio e armonia in un film che, al netto de La grande bellezza, possiamo senza dubbio ritenere il (nuovo) capolavoro di Paolo Sorrentino. E della sua mano (sacro)santa dietro la macchina da presa.