È solo la fine del mondo, aspettando Dolan

juste la fin du mondeXavier Dolan ha fatto dell’eccesso il suo biglietto da visita, sin dall’esordio, sin dai titoli dei suoi film. Si pensi appunto al debutto J’ai tué ma mère (Ho ucciso mia madre), così come all’ultimo È solo la fine del mondo, premiato a Cannes 2016 con un telefonato Grand Prix Speciale della Giuria, frutto di un copione già scritto e da rispettare senza sgarri. Ma il cinema di Dolan, e questa sua ultima opera, sono davvero la fine del mondo? La risposta sta nel titolo di una delle più celebri pièce di Shakespeare: tanto rumore per nulla.

È solo la fine del mondo, alla cui corte Dolan è riuscito a portare attoroni di grido come Léa Seydoux, Vincent Cassel e Marion Cotillard, è un film che, nella sua intrinseca prevedibilità sin dall’inizio, non solo non finisce ma addirittura proprio non inizia. Ritratto di famiglia in un interno, è un dramma della comunicazione, in fin dei conti né più né meno dei precedenti di Dolan, il quale a ben vedere non fa altro che guardare sempre lo stesso “soggetto” da punti di vista differenti. È un ‘parla che non ti sento’ in una famiglia dove ci si dà sempre addosso con le parole, uno sopra l’altro, dove ciascuno parla (o meglio da fiato alla bocca) e nessuno ascolta né ha voglia di ascoltare. Tante campane che suonano ma non allo stesso tempo, generando stridule dissonanze e nessuna melodia. E questo è un po’ anche quello che accade agli interpreti del film. In questo kammerspiel isterico, ciascuno cerca di dare il meglio di sé, ma ogni campana se la canta e se la suona. Funzionano ciascuno nella propria singolarità, nel proprio monologo, ma si fermano lì. I dialoghi non reggono, frutto solo di offese gratuite e rispostacce, sintomo sì di una famiglia ingolfata nei rimorsi e nei sentimenti mai digeriti, ma anche di una sceneggiatura che non è voluta scendere in profondità nelle ragioni di ciascun personaggio.

In tutto questo caos, il protagonista, Louis, personaggio silenzioso e trincerato dietro un imbarazzato sorrisetto di forma, aspetta il proprio turno, che non arriva mai. Vorrebbe dare una notizia importante, pur drammatica, a tutti. Ma per lui, che ha conosciuto il mondo e il rispetto per gli altri, il semaforo è sempre rosso. E allora aspetta che tocchi a lui un po’ come Beckett aspettava Godot, che non arriverà mai. Ecco, il fatto è che noi spettatori lo capiamo ben presto che non c’è altra fine che questa, e allo stesso tempo rimaniamo infangati in un’attesa non sopita né soddisfatta da quel guizzo che invece da Dolan ci aspettiamo. Dolan, già Dolan. Il ragazzo, rispetto ai suoi film precedenti, sembra aver messo un po’ la testa a posto, asciugando molto il suo estro, la sua regia, la sua irruenza giovanile. Ma anche in questo caso, pur regalandoci un paio di brevi sequenze che nell’immediato colpiscono, ha agito per eccesso.

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