Chiamami col tuo nome: quei due sono (davvero) l’amore
Odiatissimo in patria e amatissimo all’estero, Luca Guadagnino è tra i registi più discussi degli anni Duemila. E questo pur avendo all’attivo solo cinque film in diciotto anni di carriera. Quanto basta, evidentemente, per suscitare clamore, apprezzamento, disgusto, di certo non indifferenza. Chiamami col tuo nome, tratto dal romanzo di André Aciman e sceneggiato da James Ivory, lo si aspettava da tempo al varco del giudizio (insindacabile) del pubblico e della critica. A sorpresa, stavolta il film convince, pare anche in Italia. A sorpresa, è il miglior film di Guadagnino. Chiamami col tuo nome funziona perché l’urticante narcisismo e la vuota vanità registica di Guadagnino si fanno (una volta tanto) da parte, lasciando spazio ad una storia, e ad un sentimento, che prendono forma tramite i due ottimi protagonisti: Armie Hammer e Timothée Chalamet.
È un cinema di corpi, quello di Guadagnino, lo è sempre stato. Lo dimostrano in particolare i pretenziosi Io sono l’amore (2009) e A Bigger Splash (2015), entrambi fischiatissimi ai Festival di Venezia n. 66 e 72. Un cinema di dettagli, particolari, figure in posa, immobilismo e grande rarefazione dei tempi narrativi. Corpi senz’anima, semoventi ma non vivi. Ecco, Chiamami col tuo nome nel complesso funziona per la dolce sensualità emanata dai corpi dei suoi due protagonisti. Guadagnino c’è, ma si disciplina, quasi si eclissa, contenendo i soliti eccessi del suo sguardo nell’atto del puntarlo su queste due figure maschili, un adone e un comune mortale, interessati l’uno all’altro, alla ricerca di un approfondimento che è spirituale oltre alla fisicità mostrata ma non esibita dei due. Vari nudi, sì, anche in questo film di Guadagnino, ma non c’è la morbosità dei film precedenti. Io sono l’amore s’intitolava senza motivo l’opera del 2009. Ecco Io sono l’amore potrebbe essere il sottotitolo o il titolo di riserva di Chiamami col tuo nome. Un amore che ci ricorda quello di La vita di Adele di Kechiche, anche se in Guadagnino, almeno per stavolta, i toni voyeuristici si defilano, a servizio del turbinio interiore di Elio e Oliver.
Chiamami col tuo nome ha poi un lato, neppure troppo minore, che porta con sé molto dell’interesse del film: le sculture classiche studiate dal padre di Elio e da Oliver. Il tuo nome è il mio nome. C’è una ricerca di identità, di mimesi, proprio come i greci imitavano la natura, per poi astrarla, però, in bellezze senza tempo. Elio e Oliver, invece, sono reali, e un tempo ce l’hanno, un tempo limite per conoscersi, sei settimane in una calda estate, e poi ognuno riprenderà la propria strada. Un tempo da mordere, come un frutto maturo, come quella pesca, che svuotata del nocciolo, incanala e racchiude la verve vitale di Elio, ponendosi come una delle immagini più iconiche del film. Inevitabilmente, a ragione o a torto, nei cortocircuiti dei nostri ricordi cinematografici, ci torna in mente la celebre scena del burro in Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Già, Bertolucci, come Visconti, sono i due grandi maestri a cui guarda Guadagnino e che in questo film ricorrono in vario modo. Chiamami col tuo nome non è solo l’ Io ballo da sola di Guadagnino, il suo romanzo di formazione sentimentale. Bertolucci c’è nelle riprese in esterno a Crema, sobrie e altere, che ricordano soprattutto quelle di Strategia del ragno (1970), c’è nello studio dei corpi, c’è nella sensualità di una gonna troppo corta o nella non voluta liricità di un costume da bagno abbandonato. Anche Visconti permea molte sequenze, basti considerare l’opulenza, attenta ma non soffocante, della provincia lombarda dei primi anni Ottanta (gli abiti, le automobili, gli arredi di casa di Elio, ecc.). Tanto che la cura della ricostruzione storico-ambientale è forse la cosa più potente del film.
Insomma, Chiamami col tuo nome segna (o almeno pare) la maturità registica di Guadagnino, che in questo scambio di nomi si scambia quanto basta di posto con lo spettatore per consegnarci un film che trasmette lievi ma puntuali vibrazioni dentro e fuori lo schermo.
L’andremo a vedere sabato sera; poi sarà il momento di commentare
Allora ti aspetto al varco… 🙂
D’accordo su tutta la linea, senonché questo film che tanto avrei voluto odiare più lo penso e più mi piace.
Lietissimo anche di averci rivisto il Bertolucci della carnalità come te, anche se inizialmente avevo fatto un salto ancora indietro nella “genealogia registica”, ripensando al Pasolini di Teorema (se non altro per il setting).
Questo Guadagnino “al guinzaglio” è fantastico alla macchina, conscio e pulito; ancora di più lo è l’ottimo, sincero e disinibitissimo livello attoriale che splende di luce propria. Ad ora non sapevo chi fosse sto Timothée Chalamet e mi ritrovo un lavoro che da solo vale gli applausi.
Ivory risplende sempre come sceneggiatore (salvo qualche verbosità letteraria che comunque risulta congrua al contesto).
Bellissima la materia di partenza, fresca, sensualmente onesta. Una gioia per tutti i sensi, tra i quali spicca per me l’udito: un soundtrack fantastico (Sufjan deve a mani basse vincere l’Oscar per la migliore canzone) e per un missaggio sonoro che si prende pure libertà interessanti, come la versione scandita, da studio de une barque di Ravel, la sua riproposizione ostinata e castrata e poi armonicamente trionfale. Sempre di Ravel, Le jardin féerique sul paesaggio invernale e conclusivo. E che dire del Sakamoto meno battuto, ma tanto marcato che scandisce la quotidianità dei dispetti reciproci dei protagonisti?
Quanta bella cultura musicale.
Torno a vederlo al cinema una seconda volta, pratica per me assai rara.
Beh sì, tieni anche presente che, seppur poi abbiano preso strada diverse, Bertolucci e Pasolini hanno cominciato insieme, la centralità dei “corpi” è forte in entrambi.
Sì è un Guadagnino tenuto al guinzaglio, molto ivoryano sotto più punti di vista. Ma meglio questo Guadagnino del precedente.
In merito alla colonna sonora, concordo con ogni tua singola parola.