Blade Runner 2049: i replicanti più umani degli umani di Villeneuve
Correva l’anno 1982, al largo dei bastioni di Orione navi da combattimento andavano in fiamme e raggi B balenavano nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E in quell’anno Ridley Scott ci ha fatto vedere cose che noi umani (spettatori) non avevamo ancora immaginato sul grande schermo. Oggi, a 35 anni di distanza, quei momenti non sono andati perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. Non sono morti. Si sono conservati, sviluppati, rielaborati in quello che forse potremmo definire il più bel sequel della storia del cinema: Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve.
Blade Runner, anche rivisto oggi, è abbagliante. In quella Los Angeles del (vicino) 2019 c’era già tutta la fantascienza che avremmo visto dagli anni Ottanta in poi. Blade Runner era l’inizio e la fine, l’alfa e l’omega, nel mezzo dozzine di film che si sono cibati di quella miracolosa immaginazione da grande schermo. Trentacinque anni dopo, farne un sequel era qualcosa di titanico, di folle, di suicida. Eppure Blade Runner 2049 è l’eccezione che conferma la regola di come oggi, nel 2017, abbiamo visto qualcosa che non avremmo neppure potuto immaginare.
Blade Runner 2049 è un film mastodontico, un’esperienza cinematografica totale, sensoriale, che sfonda lo schermo al pari della “pellicola genitore”. Hampton Fancher e Michael Green fanno un lavoro di sceneggiatura a dir poco da premio Oscar. A dare forma e immagine allo script c’è Denis Villeneuve, che al traguardo dei cinquant’anni si dimostra (o conferma?) il miglior regista vivente, almeno nelle file di Hollywood. La donna che canta (2010), Prisoners (2013), Enemy (2013), Sicario (2015) ma soprattutto Arrival (2016) erano dei potenti “segnali dal futuro” di quello che il regista canadese sarebbe stato capace d’architettare con Blade Runner 2049. Il rischio era enorme, epico, senza precedenti. Il risultato è un’opera d’arte che trafigge il cuore e l’occhio (ah, quell’occhio, alias il cinema, che apre anche questo film) con una maestosità e una potenza visive e sonore che impressionano, che fanno stropicciare gli occhi e sturare le orecchie, che molto più semplicemente c’inondano. “Non si può fermare la marea con una scopa” afferma il personaggio interpretato da Robin Wright. E Villeneuve non ci prova neanche un po’. Dà il massimo e lo spettatore se la prende tutta, come quella pioggia fitta e gelata che “cristallizzava” Roy Batty (Rutger Hauer) nel film del 1982.
Ma la potenza, si sa, è nulla senza il controllo. E Villeneuve mantiene il controllo di tutto con uno sguardo che, sia dall’alto (vedi le tante riprese aeree) sia tra la folla (vedi la caotica e colorata LA), non lascia sfuggire nulla.
Blade Runner 2049 non è una replica del primo Blade Runner (si pensi a Star Wars VII: Il risveglio della Forza, a detta di molti un vero e proprio calco del primo Star Wars Episodio IV – Una nuova speranza), bensì un replicante, una nuova versione, proprio come gli androidi Nexus si sono evoluti. “Più umani degli umani” è una frase che ricorre in entrambi i Blade Runner. E in effetti Blade Runner 2049 lavora e scava molto di più sui sentimenti, i legami (familiari e genetici), i ricordi e il desiderio di conservarsi. Non c’è solo il sopravvivere, ma il vivere come nuovo “pianeta” da conquistare. In un futuro, sia esso sempre più distopico o meno, in cui, anche tra i replicanti, la vita si trasmette come Natura comanda, cioè come da sempre accade sin dall’inizio del mondo.
Se la settima versione (la final cut!) di Blade Runner si chiudeva con una meravigliosa porta d’ascensore allo stesso tempo tranchant e aperta ad un futuro sviluppo, anche Blade Runner 2049 si muove sulla stessa falsariga. La pioggia si è trasformata in neve, un miracolo si è compiuto, ma non è detto sia l’ultimo. La sceneggiatura pare chiudersi, compiersi, quando invece lascia socchiuso l’uscio di margini interpretativi che potrebbero “mutarsi”, proprio come i replicanti, in nuovi vivi fili narrativi. Almeno nella testa dello spettatore. E questo basta: farci sognare un po’, un altro po’, nella speranza di un nuovo miracolo e di nuove cose che ancora non abbiamo immaginato.
Aspettiamo l’episodio 3, allora.
Una domanda cattiva: quando avrà pagato la Peugeot per vedere il proprio marchio in questo film?
Non ne ho la minima idea… ma di sicuro parecchio! Magari stanno progettando le auto del futuro… 😉
Bella analisi, concordo a pieno.
A mio parere, il film è mastodontico sotto l’aspetto visivo (sonoro, scenografia, fotografia e sceneggiatura). Una goduria per gli occhi e più in generale per i sensi e le sinapsi. Mi sembra che debba qualcosa anche alla fantascienza di Nolan (per le ambientazioni differenziate dei vari pianeti/luoghi: la città di neve; la città radioattiva e ferrosa; la marea ingestibile) e alle idee di commistione tra intelligenze artificiali, ologrammi evoluti e umanità di Spike Jonze (Her). La scena dei glitch visivi con Elvis e Marylin è favolosa. Sicuramente indimenticabile, degno sequel che rilancia un universo immaginifico molto interessante.
Qualche inciampo forse sul piano narrativo, forse volutamernte. Mi sarei aspettato una ripresa maggiore del famoso unicorno, e forse anche del simbolo (kitsch e demodé) delle colombe bianche…
Sì sono d’accordo con quanto dici. Sul livello narrativo a pensarci bene non sono tanto “inciampi”, quanto spazi lasciati aperti all’interpretazione dello spettatore. L’unicorno in effetti è rimasto un elemento un po’ insoluto, sono subentrati i cavalli, e anche le colombe paiono essersi estinte 30 anni dopo 🙂
Onestamente il film l’ho trovato noioso, due ore e mezza di noia e l’ho trovato anche un po’ vuoto. Visivamente bello ma sceneggiatura praticamente inesistente (anche perché non si capisce dove voglia “andare” la trama…..
Ciao!
Grazie del tuo commento!
Personalmente non sono del tuo parere, ma il cinema è anche questo: suscitare opinioni discordanti.