Anime nere: in fondo al lato più oscuro dell’uomo.
Recensione di Anime nere di Francesco Munzi.
Anime nere non è un film sulla ndrangheta. Ma anche un film sulla ndrangheta.
A ben vedere, infatti, è primariamente un film sull’animo umano, sulle sue piaghe e pieghe più scure, quelle dove cova il dolore, il rancore, il rimorso, il ricordo. Dove la luce del sole è sconosciuta, dove non c’è redenzione né respiro, ma solo tormento. Il titolo non a caso guarda dritto alla brunitura del lato spirituale di un estratto di gente d’Aspromonte, impermeabili uomini di campagna che hanno dedicato, forse sacrificato, la vita al malaffare.
Pur ponendosi quindi sulla soglia di quel filone di film che trattano la criminalità organizzata del Meridione d’Italia, Anime nere non parla di eroi in senso canonico, ma anti-eroi tragici, i cui legami di sangue e opposizioni caratteriali sembrano presi in prestito da una tragedia di Euripide. Stiamo parlando di fratelli, figli e nipoti dalla forte tempra interiore, restii al dialogo, propensi al silenzio, in equilibrio instabile su colpe e morti di un passato da vendicare, prima o poi, al presente.
Anime nere, primo film italiano in concorso a Venezia 71, ha aperto egregiamente la strada agli altrettanto pregevoli Hungry Hearts di Saverio Costanzo e Il giovane favoloso di Mario Martone. Anime nere è un film teso, palpitante, che ci avvolge e imprigiona in una cortina di denso fumo nerissimo. La tensione cresce, graduale e inesorabile, frutto di una scelta di regia importante, che da molti può essere etichettata come “anonima autorialità”. Perché la regia può attuarsi in due modi: originali e spesso virtuosistici movimenti della macchina da presa o perfetta orchestrazione delle parti (attori, fotografia, sceneggiatura, ecc.) che la mdp si “limita” a “osservare”. Francesco Munzi sceglie la seconda opzione e sceglie bene. Perché il noir, che in questo caso è più un mood generale che non un senso d’appartenenza al genere, è affiatamento e credibilità di personaggi e situazioni. Anime nere ha una sceneggiatura di ferro, i volti giusti, gli sguardi giusti e un’atmosfera corvina e limpida da non lasciare scampo al nostro coinvolgimento.
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Il risultato è ancor più abbagliante se guardiamo ai due precedenti del regista, ovvero gli acerbi Saimir e Il resto della notte. Munzi ha affinato il tiro in questo film, dotandolo di rari pathos e misura. Anzi, si ha un po’ l’impressione che i due film citati siano stati come due momenti di passaggio, come due “brutte copie” in vista di un’opera così calibrata e oculata in ogni parte.
Inutile dire come l’onore e la famiglia, come accade in ogni gangster movie, siano temi centrali. Ma qui sono il passato e il dolore personale a schiacciare queste anime allo stesso tempo forti e fragili come una lastra di granito nero. Munzi dirige bene, con asciuttezza e intensità, questo climax di sentimenti e istituzioni fino ad un finale assolutamente inaspettato, di quelli che lasciano a bocca aperta. Perché è vero che i panni sporchi si lavano in casa, ma il sangue è difficile da lavare via.
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In conclusione, Anime nere è un grande film che volontariamente non rivela la realtà dell’ndragheta. Racconta una storia familiare sullo sfondo di quella “cultura” e impregnata di quella “cultura”. Munzi attua quasi un approccio antropologico, ma non tanto su “quella” Calabria, ma sull’uomo e la sua più ampia e ancestrale complessità di spirito.