Ammore e malavita dei Manetti Bros: la recensione
Sono passati esattamente vent’anni (era il 1997) da quel Tano da morire di Roberta Torre che, con un certo successo e un sentito clamore, mischiò musical e criminalità organizzata con l’aggiunta di una bella dose di kitsch e grottesco a cui (forse) non eravamo ancora abituati. L’urlo e il profumo del “mai visto” traboccavano da Tano da morire. E ci sono voluti vent’anni perché il cinema italiano partorisse una simile meravigliosa creatura: Ammore e malavita dei Manetti Bros, presentato con tripudio di critica e pubblico al 74esimo Festival di Venezia.
“Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d’esecuzione”. Così diceva il Perozzi nel primo Amici miei di Mario Monicelli. Ora forse parlare di genio è anche troppo, ma quei due fratellacci di Marco e Antonio Manetti (altro che amici!) ci si avvicinano molto, e Ammore e malavita suona un po’ come il canto più intonato di un lungo percorso cominciato con Zora la vampira (2000).
Prendete due romanacci (i Manetti Bros) che amano Napoli. Prendete Gomorra – La serie, mischiatela a un po’ di sceneggiata napoletana, a qualche cantatina che pavoneggia e un po’ (non) vorrebbe imitare i musical americani (ad esempio si pensi a Mamma mia! anche solo per la “canzone della serva” della Gerini) e frullate tutto ben bene nel magico contenitore del “film di genere” tornato in auge nel cinema italiano degli ultimi 4-5 anni. Il risultato è una chicca che diverte e fa l’occhiolino ad uno spettatore che vuole tornare ad essere coinvolto dal grande schermo.
Ammore e malavita rigira come un calzino vecchio tanto cinema di ieri e di oggi. Il ragionamento sul “cinema di ggenere” (sì, la doppia “g” è voluta) c’è eccome, ma non schiaccia il fine preminente del film: divertire. Perché i Manetti Bros, sia chiaro, sono bravi con la macchina da presa, sanno cosa vogliono, ma di fondo sono dei nerd e dei cazzari. Un po’ come Tarantino. Non che stia creando un (improbabile?) paragone, ma per capirsi siamo un po’ a quei livelli ma “all’italiana”. “All’italiana”, termine che da sempre è abusato dalle nostre parti, soprattutto per molto cinema moderno che c’incastra poco e nulla con i mitici film degli anni Cinquanta & Co. Ammore e malavita, invece, pur con la dovuta declinazione di significato, quel “all’italiana” se lo merita.
Detto questo, il film ha delle debolezze, a partire dall’eccessiva durata, sintomo di un ammore incondizionato per la propria “creatura” che i Manetti Bros non se la son sentita di amputare. Strano a dirsi, ma un’altra debolezza del film sono i “protagonisti” Giampaolo Morelli e Serena Rossi. Peccato perché in Song’e Napule funzionavano. Ma il personaggio di Ciro, per l’ispettore Coliandro, non ha la stessa forza del memorabile Lollo Love. Per fortuna ci sono i comprimari Carlo Buccirosso e Claudia Gerini. Lei, soprattutto, è la vera sorpresa e motore comico del film.
Concludendo, Ammore e malavita è qualcosa di più unico che raro nel cinema italiano. Forse un po’ di provincia, forse un po’ nazional-popolare. Ma forse un po’ anche un occhio verso e oltre l’orizzonte internazionale? Poco importa, per un film “del genere”, pur con i suoi difetti, incertezze, sfumature d’identità non bene definite, si può solo provare tanto ammore!