America Latina dei fratelli D’Innocenzo: recensione
Recensione di America Latina dei fratelli D’Innocenzo.
America Latina dei fratelli D’Innocenzo soffre degli stessi mali che tormentavano Favolacce: ad una regia ispirata, ammaliante, addirittura sensuale nel senso più torbido del termine, non corrisponde una sceneggiatura altrettanto strutturata, pensata, solida. Il film patisce in modo lancinante questa ambivalenza, questo vuoto che si viene a creare tra il “come” e il “cosa” viene raccontato. America Latina, un po’ come Favolacce, è tutto forma e poco contenuto, e questo è un peccato, perché i fratelli D’Innocenzo paiono una coppia che potrà dire e dare tanto al cinema italiano dei prossimi anni.
Atmosfere cupe, inquietanti, dai risvolti horror, alienanti, che a tratti ricordano il cinema di Lanthimos o Avranas. Un cinema che fa delle suggestioni e delle emozioni a pelle il suo tratto distintivo. Ma che non sa andare oltre la superficie, che non è capace di scendere in profondità né nella sensibilità dello spettatore né nelle psicologie dei personaggi. Certo c’è una gran bella fotografia e anche un gran bel lavoro sul sonoro, ma questi aspetti tecnici non si sposano con un modus narrandi che abbia altrettanta forza, incisività, personalità. Bella l’idea della cantina come territorio mentale, di inconscio freudiano, di Vietnam psicologico, ma non basta.
Insomma, ad America Latina manca il terreno sotto ai piedi, ossia una sceneggiatura che sia lo scheletro robusto su cui calare la prova intensa di un Elio Germano rabbioso, nervoso, pazzo, capace con la sua fisicità, il suo sguardo e il lavoro sulla voce di sopportare il peso di un film che, senza di lui, crollerebbe dopo pochi minuti.