Alien: Covenant di Ridley Scott, mostro vecchio non fa buon brodo
Di quanto si può allungare il brodo (di Alien) prima che diventi un’acquetta con poca sostanza?
Anno 2104. L’astronave madre Covenant è in viaggio, con più di 2000 coloni, embrioni umani di seconda generazione ed equipaggio, verso una nuova casa: il pianeta Origae-6. Un’imprevedibile tempesta di neutrini, però, la porterà all’incontro con gli xenomorfi più famosi e amati del cinema.
Diciamolo subito: Alien: Covenant con Alien c’entra ben poco. Gli amabili mostri, qui presenti, sono quasi una mera presenza collaterale atta furbescamente a catturare l’attenzione dei seguaci della saga. Chiamarlo Prometeus 2 sarebbe stato più opportuno ma certamente meno accattivante.
Dal punto di vista visivo, Ridley Scott è dotato di un insindacabile talento, che nulla deve dimostrare: le atmosfere cupe, oppressive, rese estremamente ansiogene da un montaggio dal ritmo serrato e dominate dai colori verde e nero, sono una meraviglia. Il regista conosce talmente bene il mezzo che avrebbe potuto dirigere Alien: Covenant restando comodamente seduto nel tinello di casa sua: la scena della doccia o lo scivolone sul sangue ne sono una chiara dimostrazione.
Dispiace quindi che, per portare avanti il progetto, egli abbia pensato e voluto inserire ambizioni filosofico-intellettuali su un impianto narrativo fin troppo collaudato. Ciò porta inesorabilmente alla noia e, quel che è peggio, alla risata. Copiando sé stesso, Scott non si è e non ci fa mancare proprio nulla: il segnale radio, l’astronave abbandonata, l’attacco in infermeria, persino l’alieno aggrappato all’astronave. Ancor di più poi non si capisce come uno sceneggiatore del calibro di John Logan abbia potuto strutturare Alien: Covenant su una trama così fragile, con dialoghi così pomposi da cadere nel ridicolo tragicamente involontario. Basta ascoltare le conversazioni tra i due androidi Walter e David, interpretati da un non convinto Michael Fassbender: la scena del flauto sicuramente rimarrà ai posteri come una delle più imbarazzanti degli ultimi anni. Invece di focalizzarsi sulle tante risposte alle domande che gli spettatori si pongono ormai dal lontano 1979, anno del primo inarrivabile Alien, regista e sceneggiatore s’infognano sull’eterno dualismo umano e sull’affrontare i “soliti” massimi sistemi dell’esistenza: creatore e creato, dio e uomo, bene e male, senza però arrivare da nessuna parte, proprio come i protagonisti umani, che girano in tondo, muovendosi quasi senza motivazione. Sono infatti, anche qui in maniera logora e piuttosto banale, i due androidi che danno fisicamente corpo alla perenne lotta umana contro e alla ricerca di sé stessi: se la curiosità è il motore dell’evoluzione umana, può essa diventare anche la causa dell’estinzione della vita, portando letteralmente alla disintegrazione della “carne”? L’abbattimento immediato della figura del dio-padre, porta alla necessaria ricerca di una “Mother”, contemporaneamente protettiva e matrigna? Il delirio di onnipotenza, parassita “umano” in un corpo sintetico, si può contrastare con il dovere o con “l’amore”? Una volta scoperchiato il vaso di pandora, si può o si deve tentare di “soffiare nelle narici” del noi mostruoso o bisogna abbatterlo nella certezza di aver oltrepassato un limite apparentemente invalicabile?
Tutti questi quesiti rendono Alien: Covenant come le creature che lo popolano: un mostruoso ibrido non del tutto riuscito, aggressivo e bello nella forma ma molto confuso nella sostanza.
scritto da Vanessa Forte