À plein temps (Full time) di Eric Gravel: recensione
Recensione di À plein temps (Full time) di Eric Gravel.
Il tema del lavoro è da sempre uno dei più sentiti e raccontati dal cinema francese. Quel lavoro che nella società degli anni Duemila è diventato una vera croce per tutti. Lavoro che non c’è, lavoro mal pagato, lavoro da difendere coi denti. Lavoro, lavoro, lavoro. Non lavoriamo più per vivere, ma viviamo per lavorare.
À plein temps (Full time) di Eric Gravel s’inserisce in questo filone consolidato, ricorrendo però ai toni e al ritmo di un action, quasi di un thriller, di una corsa contro il tempo che poi non è così dissimile da quella che, a ben vedere, consumiamo ogni santo giorno nelle molteplici frenesie quotidiane. Correre, correre, correre. Sempre più forte, sempre più veloce, a perdifiato, fino quasi a farci scoppiare il cuore (come accadeva nel bel film di Daniele Vicari Sole cuore amore).
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À plein temps (Full time) funziona senza intoppi grazie ad un montaggio atletico, ad una regia che insiste sui dettagli con un ampio uso della macchina a mano e ad un’interprete straordinaria, Laure Calamy. Eric Gravel ha le idee chiarissime e spolpa ogni istante, ogni scena, ogni ripresa, tirando fuori tutto il pathos, l’affanno, ma anche la dignità e la resilienza di una protagonista nella quale ciascuno di noi può specchiarsi e immedesimarsi. Laure Calamy è precisa, intensa, mai sopra le righe, assolutamente realistica in ogni reazione, vera più del vero. Meritatissimi i due premi vinti come Miglior Regia e Miglior Attrice nella sezione Orizzonti della 78esima Mostra del Cinema di Venezia.
Ecco allora che À plein temps (Full time) si staglia come uno dei film sul mondo del lavoro più importanti degli ultimi anni, mescolando con personalità il cinema di denuncia sociale di Ken Loach, dei fratelli Dardenne e di Stéphane Brizé a toni da film d’azione come raramente abbiamo visto e vissuto prima.