127 ore di Danny Boyle: la vita è bella – recensione

127-oreRecensione di 127 ore di Danny Boyle.

Una storia vera. Aron Ralston, 26 anni, è un giovane determinato a vivere la vita fino in fondo, dedicandosi ad audaci sport estremi. Durante una straordinaria escursione tra le rossastre rocce del Canyon dello Utah, cade in una strettoia e il suo braccio destro rimane incastrato tra la parete ed un masso caduto accidentalmente dall’alto. Ha così inizio la sua prova di resistenza, per la vita, per sopravvivere. Riuscirà a salvarsi dopo cinque lunghi giorni, tagliandosi l’avambraccio con un coltellino da viaggio.

Surreale e per questo visceralmente vera. E non è una contraddizione in termini. La storia di Aron concilia l’incredibile con il vero, in una soluzione che ci fa stupire sul senso della vita, sulla forza posseduta da uomo per rimanervi aggrappato, a tutti i costi, anche senza un arto. E’ questo messaggio di speranza e di vita che satura ogni sequenza di 127 ore, ultima fatica di Danny Boyle. Ed è proprio Aron ad incarnare la voglia di vivere, di scoprire, di meravigliarsi, di arrangiarsi, e addirittura il piacere di partire senza dire a nessuno la propria meta (come ci insegna Ethan Hunt in apertura di Mission Impossible 2, anch’egli indaffarato su ardite scogliere rocciose).

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La macchina da presa di Danny Boyle, sostenuta da una fotografia mozzafiato (come potrebbe essere altrimenti nel Gran Canyon!), compie movimenti vertiginosi e vorticosi, volti a lasciare a bocca aperta lo spettatore. A questi alterna uno smisurato e stucchevole uso dello splitscreen e immagini che si sgranano nell’imperfezione pixeliana di una videocamera digitale. Ma c’è anche spazio per brevi sequenze con ricordi d’infanzia, feste con amici, eventi mai accaduti, sogni (magistrale quello in cui Aron si immagina libero, trionfante sopra un’enorme roccia rotonda), che permettono ad Aron di non essere realmente solo in quella buca.

Tutto questo è reso compatto da un montaggio atletico, brioso, degno dello sport estremo praticato dal protagonista e condito da sonorità bollywoodiane, d’ora in poi (purtroppo) immancabili nelle pellicole del regista inglese.

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Intensa la prova del giovane James Franco, one man film, Atlante capace di (sop)portare sulle proprie spalle una vicenda di straordinaria intensità. L’attore ha su di sé tutte le luci della ribalta, ma non si adagia né indugia nel patetismo o nel pathos più smodato. Tiene in pugno il suo personaggio con statuaria fermezza e distinta compostezza. Al suo orizzonte una possibile ma poco probabile statuetta da Oscar come migliore attore. Poco probabile non per demerito, ma per la spietata concorrenza che subirà da parte dei quotatissimi Javier Bardem (Biutiful) e Colin Firth (Il discorso del re).

Ma 127 ore, nella notte più lunga di Los Angeles, sarà in gara con altre cinque nomination. Nel 2008 Danny Boyle sbancò il Kodak Theatre portandosi a casa ben otto statuette. Chissà se una magia simile riuscirà anche quest’anno.

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